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- Uno sguardo sull’evoluzione e l’impatto degli agenti AI
"Navigating the AI Frontier: A Primer on the Evolution and Impact of AI Agents" è il titolo della ricerca a cura di Fernando Alvarez (Capgemini), Jeremy Jurgens (World Economic Forum) e con il contributo del team interno del World Economic Forum. La tematica affronta l’evoluzione degli agenti AI, entità in grado di operare autonomamente in ambienti digitali o fisici. La ricerca, pubblicata nel dicembre 2024, mostra come dagli anni ’50 a oggi questi agenti siano passati da semplici programmi a sistemi in grado di gestire processi complessi, con l’uso esteso di modelli linguistici avanzati. Uno sguardo sull’evoluzione e l’impatto degli agenti AI Dal concetto di agente AI alla crescente autonomia In origine gli agenti AI erano legati a logiche rigide e deterministiche, incapaci di adattarsi a situazioni impreviste. Oggi, grazie allo sviluppo di modelli di deep learning e large language models, questi agenti non si limitano a reagire a istruzioni statiche. Al contrario, elaborano dati complessi e sviluppano strategie decisionali più vicine a una riflessione autonoma. Nel tempo, l’incremento della potenza di calcolo e la disponibilità di dati online hanno portato allo sviluppo di agenti capaci di interpretare input multimediali, superando le barriere dei testi scritti. Se negli anni ’50 l’agente AI era poco più di una serie di istruzioni codificate, nel 2024 è diventato uno strumento con competenze di memoria, pianificazione e interazione continua con l’ambiente. Questo comporta una capacità di analisi che, in certi contesti, può consentire di ridurre i tempi di valutazione di scenari complessi, ad esempio ottimizzando piani di lavoro in poche ore anziché giorni. Emerge la consapevolezza che, in vari settori, gli agenti AI possano gestire sequenze di decisioni complesse. Il passaggio dalla mera risposta a una domanda alla gestione di flussi operativi articolati si traduce in un potenziale incremento di efficienza. Un imprenditore potrebbe, ad esempio, affidare a un agente AI l’organizzazione dei turni lavorativi, confrontando dati storici e variabili esterne per proporre modelli operativi più snelli. Questo approccio non richiede più un intervento umano costante, poiché l’agente è in grado di adattarsi ai cambiamenti, alimentando l’interesse per soluzioni capaci di presidiare processi di business dinamici senza supervisione continuativa. Dal controllo lineare alla pianificazione adattiva: l’evoluzione degli agenti AI La ricerca descrive come gli agenti AI siano passati da regole rigide a sistemi che apprendono dall’esperienza, grazie a tecniche come il reinforcement learning, utili a rafforzare comportamenti efficaci nel tempo. Un agente AI odierno può valutare esiti futuri basandosi su dati passati, analizzando pattern di utilizzo o anomalie operative per anticipare problemi e ottimizzare risorse.Questo salto di qualità facilita un utilizzo più maturo in ambienti industriali e organizzativi. In uno scenario aziendale, l’agente AI potrebbe affiancare un dirigente nel monitorare la supply chain, verificando in tempo reale disponibilità di materie prime, ritardi logistici e volatilità dei prezzi, proponendo di conseguenza azioni correttive. Tale approccio differisce dai metodi tradizionali, poiché l’agente non si limita a eseguire una singola azione, ma bilancia obiettivi multipli, come contenimento dei costi e garanzia di qualità, ponderando variabili complesse.L’abilità di aggiornare strategie decisioni in corso d’opera, senza fermarsi a ogni minimo ostacolo, consente di risparmiare tempo ed energie. Con l’espansione dei dati disponibili, questi agenti diventano capaci di identificare correlazioni tra fattori che prima sfuggivano a un’analisi umana immediata. Un esempio concreto è la gestione del servizio clienti: un agente AI può analizzare in secondi migliaia di richieste, individuare questioni ricorrenti e suggerire migliorie ai prodotti o ai servizi, riducendo i tempi d’attesa del 20% e migliorando la soddisfazione dei clienti. Verso sistemi multi-agente in contesti complessi La ricerca evidenzia come l’evoluzione verso sistemi multi-agente segni un passaggio significativo nella gestione di ambienti altamente variabili, in cui le interazioni non si limitano a singoli input-output ma implicano una rete di decisioni interconnesse. In un contesto urbano, diversi agenti potrebbero operare in parallelo: uno si concentra sulla fluidità del traffico, un altro sul trasporto pubblico, un terzo sul monitoraggio del flusso pedonale. Ognuno di questi agenti possiede competenze specializzate, come se ogni porzione del problema avesse un proprio esperto virtuale. Il risultato non è un singolo agente che fatica a considerare tutte le variabili, ma una comunità di entità autonome capaci di interagire tra loro per ottenere un risultato complessivo più efficiente. In pratica, coordinando semafori e veicoli autonomi con l’analisi dei flussi di passeggeri della metropolitana, si crea un ecosistema che adatta continuamente i parametri di funzionamento, ottimizzando la mobilità anche quando si verificano eventi imprevisti, come un incidente o un repentino aumento del numero di persone in una zona della città. Uno dei tratti distintivi di questi sistemi è la capacità degli agenti di comunicare su una base comune, condividendo informazioni con protocolli standardizzati. Per rendere funzionale questo dialogo, gli agenti possono adottare linguaggi condivisi, sviluppati ad hoc per lo scambio di dati complessi. Questi linguaggi sono essenziali affinché ogni agente interpreti correttamente i messaggi degli altri, evitando fraintendimenti. Si pensi a un’impresa strutturata come un sistema multi-agente: un agente dedicato alla contabilità invia dati sul flusso di cassa a un agente responsabile dell’analisi del rischio, che a sua volta li comunica a un altro agente preposto alla pianificazione degli investimenti. Il tutto avviene senza un unico centro di controllo, ma con una rete di comunicazioni dinamiche. L’effetto è un insieme di decisioni più organico, in grado di modulare strategie di lungo periodo, ad esempio bilanciando il portafoglio di investimenti con previsioni di mercato fornite da un altro agente specializzato nell’analisi dei trend internazionali. In termini di resilienza, questo approccio distribuito mostra vantaggi evidenti. Se un singolo agente incontra un guasto, come un errore nel processo di analisi dei dati, gli altri possono compensarne gli effetti. Così facendo, si evitano blocchi totali dell’intero sistema. Questo vale non solo nel campo della mobilità urbana o della finanza, ma anche in settori come l’energia o la logistica, dove la domanda può variare in maniera improvvisa o dove imprevisti tecnici minacciano la stabilità dell’infrastruttura. Una rete di agenti che cooperano nell’approvvigionamento energetico può ridistribuire carichi e risorse in modo dinamico. Se una centrale riscontra un problema tecnico, un altro agente può incrementare la produzione da fonti alternative, mentre un terzo potrebbe comunicare in anticipo la necessità di attivare riserve o avvisare gli utenti di possibili riduzioni temporanee. Questa caratteristica di robustezza non si limita alla semplice ridondanza tecnica. Nei sistemi multi-agente, la robustezza deriva anche dalla capacità di ogni agente di apprendere e di aggiornarsi, incorporando nuovi dati e adeguandosi a condizioni mutate. Un esempio è il magazzino di un grande distributore, dove più agenti coordinano le scorte, l’inventario e la logistica in ingresso e in uscita. Se si verifica un picco imprevisto nella domanda di un determinato prodotto, l’agente responsabile dell’approvvigionamento può negoziare con l’agente che gestisce le disponibilità in magazzini limitrofi, ottenendo rapidamente una riassegnazione delle scorte. L’effetto complessivo è una maggiore efficienza del sistema, che non dipende più da una singola “mente” centrale, ma da una comunità coordinata di agenti. Un’impresa, un’infrastruttura critica o un servizio pubblico possono beneficiare di questa flessibilità: invece di reagire in ritardo ai problemi, il sistema multi-agente può anticiparli e adattarsi, mantenendo un livello di servizio alto anche in situazioni avverse. L’interazione tra agenti, ciascuno dotato di una sua specializzazione, consente di affrontare la complessità del mondo reale con un approccio distribuito, dinamico e resiliente, aprendosi così a una gestione più intelligente e solida dei sistemi complessi. Gestire la complessità, ridurre i rischi Cresce la capacità degli agenti di operare senza controllo umano costante, ma questo richiede sistemi di governance efficaci. La ricerca sottolinea l’importanza di definire protocolli, standard di interoperabilità, linee guida etiche e meccanismi di monitoraggio. Senza adeguate strutture, un agente in grado di agire in autonomia può incorrere in obiettivi mal allineati, con conseguenze inattese. La responsabilità di un dirigente, ad esempio, non è affidarsi ciecamente all’agente, ma garantirne lo sviluppo in un quadro regolatorio solido. La trasparenza nei processi decisionali dell’agente è essenziale: capire perché ha suggerito una particolare azione permette di valutare la bontà delle scelte e di intervenire con tempestività. Esempio: nel settore sanitario, un agente AI che supporta la diagnosi deve essere verificabile e robusto, così da non introdurre errori non rilevabili dall’occhio umano. La ricerca mostra come una governance proattiva, basata su test, controlli e audit periodici, riduca la probabilità di guasti imprevisti. Questo approccio, se ben implementato, crea fiducia negli agenti anche tra i decisori aziendali, stimolando investimenti e favorendo l’adozione in settori regolamentati. Approcci strategici tra competizione tecnologica e integrazione sociale Il documento affronta la prospettiva di un impiego sempre più esteso di agenti AI, pronti a permeare processi complessi. Non si tratta solo di tecnologia, ma di immaginare come i sistemi multi-agente influenzeranno l’intero tessuto economico e sociale. Per un imprenditore, comprendere questi scenari può fare la differenza tra adottare soluzioni efficaci o restare indietro. La ricerca spiega che l’adozione di agenti avanzati permette di ridurre la necessità di intervento manuale anche in processi delicati. In un mercato globale sempre più competitivo, gli agenti AI possono supportare decisioni strategiche, filtrando enormi quantità di dati internazionali, interpretando andamenti macroeconomici e segnalando opportunità in mercati emergenti. Un esempio pratico potrebbe essere l’ingresso in un nuovo mercato: l’agente analizza normative, tendenze di consumo, disponibilità di fornitori e rischi geopolitici, fornendo al manager una mappa dei possibili scenari futuri. Questo approccio informato permette di testare strategie alternative, considerare impatti a lungo termine e ridurre l’improvvisazione. Audit della pre-elaborazione dei dati per la credibilità degli agenti AI L’adozione di agenti AI e sistemi multi-agente può offrire maggiore efficienza operativa e rapidità decisionale, ma richiede una base informativa solida. Prima che questi sistemi elaborino input complessi, è necessario garantire l’integrità e la coerenza dei dati attraverso un audit accurato della fase di pre-elaborazione. Non si tratta di un controllo meramente formale, bensì di un momento in cui la qualità dell’informazione diventa un valore strategico. Assicurare che le fonti di dati siano affidabili, che i processi di acquisizione siano trasparenti e che le trasformazioni applicate non introducano inconsistenze significa preservare la credibilità del risultato finale. Tale presidio favorisce la creazione di modelli più stabili, capaci di resistere a variazioni imprevedibili dell’ambiente e di fornire output affidabili nel tempo. Un audit strutturato nella fase di pre-elaborazione dei dati rende più efficaci gli interventi di ottimizzazione successivi. Si pensi all’importanza di individuare e minimizzare la presenza di anomalie nell’informazione di partenza: una pulizia attenta dei set di dati garantisce analisi più nitide, riducendo gli oneri legati all’individuazione di segnali falsi. L’efficienza ottenuta non riguarda solo i tempi di elaborazione, ma influenza la solidità dei modelli, la tracciabilità delle operazioni e, in ultima analisi, la capacità degli agenti di generare valore su larga scala. La creazione di un flusso informativo trasparente, coerente e ben documentato si ripercuote direttamente sulla gestione strategica dei progetti di intelligenza artificiale, consentendo di affrontare con maggiore serenità la complessità crescente dei sistemi multi-agente, la varietà delle fonti informative e l’impatto di decisioni che, se basaste su dati inconsistenti, rischierebbero di compromettere la fiducia degli utilizzatori finali. Curare la fase di pre-elaborazione e affiancarla a un audit continuo equivale a costruire fondamenta più robuste per tecnologie che potranno integrarsi armonicamente con altre soluzioni già presenti sul mercato. Questo approccio non guarda solo all’efficienza operativa, ma anche alle implicazioni etiche e reputazionali legate alla rappresentatività e all’equità nella distribuzione dei dati. Chi gestisce imprese lungimiranti comprende come un controllo della pre-elaborazione dei dati, integrato in un contesto di gestione olistica delle infrastrutture AI, possa consolidare la resilienza dei modelli, preparandoli ad affrontare scenari futuri più complessi e regolamentati senza sacrificare la trasparenza né la capacità di cogliere opportunità emergenti. In un mercato in cui la credibilità dell’informazione è al centro del vantaggio competitivo, l’audit della pre-elaborazione diventa una leva cruciale per sostenere l’evoluzione degli agenti AI e per ancorare le scelte tecnologiche a standard di qualità e affidabilità che guardino ben oltre la semplice esecuzione delle analisi. Sicurezza e vulnerabilità nelle implementazioni LLM L’integrazione degli agenti AI con modelli di linguaggio di grandi dimensioni richiede un’attenzione continua alle dinamiche della sicurezza, poiché questi sistemi non si limitano più a un set di regole statiche ma operano su un perimetro informativo vasto, complesso e potenzialmente esposto a minacce inedite. È opportuno considerare il rischio che input maliziosi, informazioni sensibili o vulnerabilità nella catena di fornitura possano compromettere l’intera architettura. Le sfide legate a manipolazioni dell’input e all’introduzione di anomalie nei dati, all’accesso non autorizzato a risorse interne, agli attacchi volti a sfruttare l’autonomia degli agenti o a carpire credenziali e dettagli operativi, impongono l’adozione di pratiche di sicurezza avanzate. Non si tratta di un semplice aggiornamento dei protocolli, bensì di uno sforzo di ripensamento strategico, in cui architettura, audit, processi di filtraggio e supervisione umana lavorano in sinergia. Una visione integrata e attenta all’intero ciclo di vita, dal data management iniziale fino alle fasi operative, consente di mitigare il rischio di azioni non volute, fughe di informazioni e danni reputazionali. Queste considerazioni rendono la sicurezza non più un aspetto tecnico isolato, ma un fattore essenziale nell’allineare le implementazioni degli agenti AI a obiettivi di affidabilità, credibilità e continuità del servizio. L’efficacia di un ecosistema di agenti AI e LLM dipende dall’equilibrio tra autonomia e controllo, tra adattabilità ed esattezza, e tra apertura all’innovazione e rigore nella difesa dei dati. In un contesto nel quale le vulnerabilità non si limitano a singole falle tecniche, ma coinvolgono l’intera struttura informativa e decisionale, la sicurezza diventa un pilastro del valore strategico dell’intelligenza artificiale. Conclusioni L’analisi condotta rivela come l’integrazione degli agenti AI nelle strutture operative non sia un semplice esercizio di adozione tecnologica, ma un percorso che richiede senso critico e strategie equilibrate. Pur non rappresentando la soluzione infallibile a ogni esigenza, gli agenti possono, se implementati con attenzione e coordinati con sistemi e processi già esistenti, offrire maggiore resilienza e rapidità di adattamento. Questo non significa adottarli acriticamente, bensì valutarne l’impatto nel quadro di un ecosistema tecnologico in continua evoluzione. In un contesto caratterizzato da soluzioni eterogenee, l’approccio più efficace non è inseguire la novità senza riserve, ma integrare gli agenti AI come uno degli strumenti a disposizione, calibrando investimenti, rischi e potenzialità. Se gestiti con una visione lungimirante e supportati da rigore nella sicurezza e nella qualità dei dati, questi sistemi possono contribuire a rendere le organizzazioni più flessibili, capaci di interpretare meglio le variabili di mercato e di sperimentare nuove forme di efficienza, senza per questo rinunciare a un controllo vigile e a una prospettiva strategica di lungo termine. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/Uno-sguardo-sullevoluzione-e-limpatto-degli-agenti-AI-e2sg3vp Fonte: https://www.weforum.org/publications/navigating-the-ai-frontier-a-primer-on-the-evolution-and-impact-of-ai-agents/
- From the university laboratory to the market: a guide to creating academic startups
"Startup Guide: An entrepreneur’s guide for Harvard University faculty, graduate students, and postdoctoral fellows" is a study by Isaac T. Kohlberg, Gökhan S. Hotamisligil, and Gregory L. Verdine, developed with the support of the Harvard University Office of Technology Development. This work primarily involves Harvard University and its technology transfer ecosystem, examining the process of transforming an academic invention into a new enterprise focused on innovation. The goal is to provide an in-depth look at topics such as the protection of intellectual property, securing funding for growth, and the proper definition of the business model, offering real-world case studies and practical tools for potential entrepreneurs. From the university laboratory to the market: a guide to creating academic startups From the academic idea to value creation for academic startups Within a university setting, turning a scientific discovery into an entrepreneurial opportunity requires a gradual and conscientious approach. The process often begins with inventions born in research labs, but moving from theoretical insight to market validation calls for careful evaluation. When an academic idea emerges, the objective is to determine whether there is a market willing to pay for that technology, whether development timelines align with available funding, and whether the research team intends to commit to growing the enterprise. In these areas, dedicated technology transfer offices provide essential support. For example, the Harvard University Office of Technology Development (OTD) guides researchers, doctoral candidates, and postdoctoral fellows in analyzing the commercial potential of their invention, encouraging a critical mindset. A realistic reflection on “market demand” is crucial, meaning the technology’s ability to generate value for real customers who face problems yet to be satisfactorily solved. In a competitive market, understanding potential competitors’ strategies and technical feasibility is decisive. An inventor might ask: Who will buy this product? How large is the accessible market segment? How effectively does this solution improve the lives of its recipients? These questions help outline a more solid path towards creating a competitive enterprise. Protecting intellectual property: the heart of academic startups The creation of academic startups related to a university invention is based on protecting intellectual property. Without strong patents, sustaining a competitive differentiation is challenging. Filing a well-structured patent application often takes place before any public disclosure to obtain “an intangible asset of value.” The goal is to give investors a defensible technological base and reassure potential buyers of the product that they are gaining recognized advantages. Moving from laboratory research to the market involves defining a relationship with the university, which typically holds the initial rights to the invention. The startup can negotiate an option or an exclusive license to acquire the exploitation rights. A concrete example of this type of collaboration is found in the work done by OTD, which has provided advice on licensing patent portfolios to new companies, reassuring potential investors about the legal foundations of what will eventually become the startup’s core business. This is a complex step, since transferring or acquiring intellectual property rights requires sensitivity in balancing the interests of the university, the inventors, and those who will invest time and capital in the enterprise. Evaluating the market and finding adequate funding To ensure continuity for academic startups, financial resources are needed. An idea alone is not enough: without funds, one cannot develop a prototype, hire specialized personnel, or cover initial operating costs. Seeking “investment capital” is one of the most delicate moments for an emerging entrepreneur. It is advisable to assess whether a business can grow gradually from its revenues, without external capital, or whether it must turn to professional investors, angel investors, venture capitalists, or public research funds such as SBIR. A significant example comes from Tetraphase Pharmaceuticals, a company born from innovations in chemical research. In 2006, the company obtained a $25 million Series A round, a substantial initial investment from venture capital funds and institutional investors. This example shows how a clear market strategy, the support of an organization like the Harvard University Office of Technology Development, and the presence of qualified investors can reduce uncertainties and create conditions for development. At the same time, there are alternative paths that diverge from traditional profit-driven logic and aim to integrate technological innovation with a specific social purpose. Diagnostics For All (DFA) is a prime example of this dynamic. Founded on technologies developed in Harvard University’s labs, DFA set out to create low-cost diagnostic tests, easily usable even in resource-limited contexts, such as certain developing countries. These tests make it possible to analyze biological fluids—such as blood—using paper-based supports treated with chemical reagents, enabling rapid and inexpensive diagnoses without the need for complex medical infrastructure. The goal is to improve access to healthcare for communities otherwise excluded from the benefits of biomedical innovations, having a tangible impact on global public health. This is not mere philanthropy tied to the needs of a single laboratory: choosing a non-profit model responds to a strategic vision in which social interest outweighs the pursuit of economic margins. However, even an entity of this type must grapple with market aspects and precise operational assessments. It is necessary to determine production costs, identify sustainable distribution channels, ensure the training of local personnel, and maintain quality and safety standards. In other words, although DFA does not strive for maximum profit, it must still prove it can ensure an economic balance allowing it to pursue its mission on a large scale. This approach can attract institutional investors, philanthropic foundations, government agencies, and international organizations interested not so much in an immediate economic return as in returns measured by social impact, global health, and reduced inequalities. The know-how of the Harvard University Office of Technology Development is also valuable in this case, useful for defining licensing agreements, evaluating competitive positioning, involving non-traditional partners, and identifying non-conventional funding tools, such as donations, grants, and partnerships with non-profit entities. Diagnostics For All shows that sustainability is not solely tied to financial returns, but can be built around other forms of value, such as solution accessibility, reduced economic barriers, and an expanded pool of beneficiaries. This model serves as inspiration for companies wishing to combine scientific capabilities, ethical sensitivity, and entrepreneurial intelligence, showing that innovation does not necessarily have to conform to a paradigm purely geared toward profit, but can also be shaped to meet human and social needs yet to be satisfied. Legal, organizational aspects and team building Building a startup from scratch involves strategic decisions about legal structure, governance, team composition, and equity distribution. Choosing company forms that facilitate raising investments is crucial, such as the Delaware C-Corp, valued for its flexibility and clear regulations. Underestimating these aspects means risking fragile foundations beneath an otherwise promising project. Similarly, defining roles and responsibilities among the founders is critical. A researcher might become a scientific advisor, while a partner more inclined towards business might take on operational leadership. A portion of the shares can be allocated to key figures such as advisors or members of the board of directors. When addressing the issue of equity, a common approach is vesting, whereby founders gradually earn their rights to their shares. Thus, those who work longer on the project gain recognition proportional to their involvement over time. All this should be guided by specialized legal advice to steer the company through regulations, insurance liabilities, and human resources management, providing operational stability. From data to strategy: practical examples of success The road to market does not follow simple paths, as each innovation encounters specific obstacles ranging from the need to validate a prototype to the search for a competitive market position. Yet some experiences offer useful insights for drawing operational lessons. One such case is Crimson Hexagon, born from an algorithm designed to analyze large volumes of unstructured text for the purpose of extracting information on the “sentiment” expressed by users online towards issues, brands, or products. Initially tested on content related to election campaigns, this technology was recognized for its ability to aggregate complex data and better understand the opinions shared among consumers, turning them into useful indicators for commercial purposes. Crimson Hexagon’s strategy shows that directing an academic discovery towards real market needs—such as measuring customers’ attitudes toward a product—can not only attract investors and potential partners but also provide a blueprint for generating tangible value. Another significant example is GnuBIO, a company dedicated to using microfluidic technologies in DNA sequencing. Building on research into emulsions and microscopic flow systems, GnuBIO successfully selected and optimized solutions tailored to an emerging field such as genomic diagnostics, a rapidly growing sector with demand oriented toward more precise and accessible tools. This ability to operate in a still relatively uncrowded market, focusing on technology with a clear potential application, garnered the attention of capital capable of supporting the development phase. It was not only the scientific aspect that determined the initiative’s credibility, but also the strategic vision and the awareness of how to integrate laboratory-developed expertise into an entrepreneurial perspective, engaging individuals able to transform technical solutions into commercial instruments. In these examples, the Harvard University Office of Technology Development played a crucial role in guiding and supporting founders toward well-considered decisions, from defining the patent portfolio to approaching investors and industrial partners. The experiences of Crimson Hexagon and GnuBIO highlight how essential it is to “know your target market” and to engage in “strategic innovation management.” It is not about acting haphazardly, but about identifying from the earliest stages the real needs to address, setting a coherent business model, ensuring solid intellectual property rights, and assembling a team ready to make targeted choices. In this way, one can move from the laboratory to complex markets with greater confidence, transforming scientific assets into sought-after products and services. Conclusions The journey from a university patent to a structured enterprise is not a linear path, but a delicate balance between strategic choices and external constraints. Other technologies already on the market often follow similar processes, frequently leveraging the support of private incubators, dedicated startup acceleration programs, or open innovation initiatives—collaborations between established companies and young, innovative firms designed to find new solutions and strategies. The difference, compared to what is already available on the market, lies in the ability to convert academic knowledge into tangible opportunities, thanks to legal and financial tools that reduce risk and make the development path more predictable. For established companies, this approach has significant consequences, since it requires reconsidering how to integrate innovations originating from academia into their growth strategies. Integrating ideas from research can provide competitive advantages, but it also involves negotiating intellectual property rights and welcoming teams from research environments. An informed manager recognizes that creating startups from university patents does not eliminate risks but offers a growth perspective in knowledge-intensive market segments. Ultimately, what emerges is not a linear model, but a set of coordinated strategies in which collaboration among universities, technology transfer offices, investors, and entrepreneurs capable of interpreting market signals can lead to outcomes that intelligently fit into the existing competitive landscape, creating opportunities for those who know how to prudently harness their potential. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/From-the-university-laboratory-to-the-market-a-guide-to-creating-academic-startups-e2sfram Source: https://otd.harvard.edu/uploads/Files/OTD_Startup_Guide.pdf
- Dal laboratorio universitario al mercato: una guida alla creazione di startup accademiche
"Startup Guide: An entrepreneur’s guide for Harvard University faculty, graduate students, and postdoctoral fellows" è uno studio a cura di Isaac T. Kohlberg, Gökhan S. Hotamisligil e Gregory L. Verdine, sviluppato con il supporto dell’Harvard University Office of Technology Development. Questo lavoro coinvolge principalmente la Harvard University e il suo ecosistema di trasferimento tecnologico, interessandosi al processo di trasformazione di un’invenzione accademica in una nuova impresa focalizzata sull’innovazione. L’obiettivo è offrire uno sguardo approfondito su temi come la tutela della proprietà intellettuale, l’attrazione di fondi per la crescita e la corretta definizione del modello di business, fornendo esempi di casi reali e strumenti operativi per i potenziali imprenditori. Dal laboratorio universitario al mercato: una guida alla creazione di startup accademiche Dall’idea accademica alla creazione di valore per startup accademiche All’interno del contesto universitario, trasformare una scoperta scientifica in un’opportunità imprenditoriale richiede un approccio graduale e consapevole. Il percorso inizia spesso con invenzioni nate nei laboratori di ricerca, ma per passare dall’intuizione teorica alla validazione sul mercato servono valutazioni attente. Quando un’idea accademica emerge, l’obiettivo è capire se esiste un mercato disposto a pagare per quella tecnologia, se i tempi di sviluppo sono coerenti con le disponibilità di fondi e se il team di ricerca intende impegnarsi nella crescita dell’impresa.In questi ambiti, gli uffici dedicati al trasferimento tecnologico offrono un supporto fondamentale. L’Harvard University Office of Technology Development (OTD), ad esempio, accompagna ricercatori, dottorandi e postdoc nell’analisi del potenziale commerciale della loro invenzione, promuovendo l’adozione di un approccio critico. È cruciale una riflessione realistica sulla “domanda di mercato” , cioè la capacità della tecnologia di generare valore per clienti reali che affrontano problemi ancora senza soluzioni soddisfacenti. In un mercato competitivo, comprendere le strategie dei potenziali concorrenti e la fattibilità tecnica è decisivo. Un inventore può chiedersi: chi acquisterà questo prodotto? Quanto è grande il segmento di mercato accessibile? Qual è la capacità della soluzione di migliorare la vita dei destinatari? Queste domande contribuiscono a delineare un percorso più solido verso la creazione di un’impresa competitiva. Tutela della proprietà intellettuale: il cuore delle startup accademiche La creazione di startup accademiche legata a un’invenzione universitaria si fonda sulla protezione della proprietà intellettuale. Senza brevetti solidi, sostenere la differenziazione competitiva è complicato. La formalizzazione di una domanda di brevetto ben strutturata avviene spesso prima di ogni divulgazione pubblica, così da ottenere “un asset intangibile di valore” . L’obiettivo è consentire agli investitori di riconoscere nella tecnologia una base difendibile e ai potenziali acquirenti di prodotti la sicurezza di un vantaggio riconosciuto.Il passaggio dalla ricerca in laboratorio al mercato prevede la definizione di un rapporto con l’università, che di norma detiene i diritti iniziali sull’invenzione. La startup può negoziare un’opzione o una licenza esclusiva per acquisire i diritti di sfruttamento. Un esempio concreto di tale collaborazione si trova nel lavoro svolto da OTD, che ha offerto consulenza per la licenza del portafoglio brevettuale a nuove società, rassicurando potenziali investitori sulle basi legali di ciò che in futuro costituirà il core business della startup. È un passaggio complesso, poiché cedere o acquisire diritti di proprietà intellettuale richiede sensibilità nel bilanciare gli interessi dell’università, degli inventori e di chi investirà tempo e capitali nell’impresa. Valutare il mercato e trovare i fondi adeguati Per dare continuità alle startup accademiche servono risorse finanziarie. Non basta un’idea: senza fondi, non si può sviluppare un prototipo, assumere personale specializzato o coprire i costi operativi iniziali. La ricerca di “capitali di investimento” è uno dei momenti più delicati per un imprenditore emergente. È consigliabile valutare se un business può crescere gradualmente dai ricavi, senza capitali esterni, o se invece occorre ricorrere a investitori professionali, angel investor, venture capitalist o fondi pubblici di ricerca come gli SBIR.Un esempio significativo proviene da Tetraphase Pharmaceuticals, società nata da innovazioni nella ricerca chimica. Nel 2006 la società ottenne 25 milioni di dollari di finanziamento di Serie A, ossia un primo importante round di investimenti provenienti da fondi di venture capital e investitori istituzionali, dimostrando come una strategia di mercato chiara, il supporto di un’organizzazione come l’Harvard University Office of Technology Development e la presenza di investitori qualificati possano ridurre le incertezze e creare le condizioni per lo sviluppo. In parallelo, si osservano percorsi alternativi che si discostano dalla logica tradizionale del profitto e puntano a integrare l’innovazione tecnologica con una finalità sociale esplicita. Diagnostics For All (DFA) rappresenta un esempio emblematico di questa dinamica. Fondata su tecnologie sviluppate nei laboratori della Harvard University, DFA si è proposta di creare test diagnostici a basso costo, facilmente utilizzabili anche in contesti con risorse limitate, come alcuni Paesi in via di sviluppo. Questi test permettono di analizzare fluidi biologici, ad esempio il sangue, su supporti cartacei trattati con reagenti chimici, consentendo diagnosi rapide e a costi ridotti, senza la necessità di infrastrutture mediche complesse. L’obiettivo è migliorare l’accesso alle cure per comunità altrimenti escluse dai benefici delle innovazioni biomediche, con un impatto concreto sulla salute pubblica globale. Non si tratta di una semplice filantropia legata alle esigenze di un singolo laboratorio: la scelta del modello no-profit risponde a una visione strategica in cui l’interesse sociale supera la ricerca del margine economico. Tuttavia, anche una realtà di questo tipo deve confrontarsi con aspetti di mercato e valutazioni operative precise. È necessario determinare i costi di produzione, identificare canali distributivi sostenibili, garantire la formazione del personale locale e il mantenimento di standard di qualità e sicurezza. In altre parole, sebbene DFA non insegua la massimizzazione del profitto, deve comunque dimostrare di poter garantire un equilibrio economico che le consenta di portare avanti la propria missione su larga scala. Questa impostazione può attrarre investitori istituzionali, fondazioni filantropiche, agenzie governative e organizzazioni internazionali interessate non tanto a un ritorno economico immediato, quanto piuttosto a un ritorno in termini di impatto sociale, salute globale e riduzione delle disuguaglianze. Il know-how dell’Harvard University Office of Technology Development, anche in questo caso, risulta utile per definire accordi di licenza, valutare il posizionamento competitivo, coinvolgere partner non tradizionali e individuare strumenti di finanziamento non convenzionali, come donazioni, grant e partnership con enti no-profit. Diagnostics For All mostra che la sostenibilità non è legata unicamente ai ritorni finanziari, ma può essere costruita su altre forme di valore, come l’accessibilità delle soluzioni, la riduzione delle barriere economiche e l’ampliamento della platea di beneficiari. Tale modello funge da ispirazione per imprese che vogliano connettere capacità scientifiche, sensibilità etica e intelligenza imprenditoriale, dimostrando che l’innovazione non deve necessariamente adattarsi a un paradigma esclusivamente orientato al profitto, ma può anche modellarsi per rispondere a esigenze umane e sociali non ancora soddisfatte. Aspetti legali, organizzativi e costruzione del team Costruire una startup da zero implica decisioni strategiche su struttura legale, governance, composizione del team e distribuzione dell’equity. È fondamentale selezionare forme societarie adatte a reperire investimenti, come la “C-Corp del Delaware” , apprezzata per la flessibilità e la chiarezza normativa. Sottovalutare questi aspetti significa rischiare di mettere basi fragili sotto un progetto altrimenti promettente.Allo stesso modo, definire ruoli e responsabilità tra i fondatori è cruciale. Un ricercatore potrebbe diventare consigliere scientifico, mentre un partner più vocato al business potrebbe assumere la guida operativa. Una parte delle quote può essere destinata a figure chiave come advisor o membri del consiglio di amministrazione. Quando si affronta il tema dell’equity, un approccio diffuso è la vesting delle quote, secondo cui i fondatori acquisiscono progressivamente i diritti sulle proprie partecipazioni. Così, chi lavora più a lungo nel progetto ne ottiene un riconoscimento proporzionato nel tempo. Tutto ciò deve avvenire in un quadro di consulenza legale ad hoc, capace di guidare l’azienda tra normative, responsabilità assicurative e gestione delle risorse umane, fornendo stabilità operativa. Dai dati alla strategia: esempi pratici di successo La strada verso il mercato non segue percorsi semplici, poiché ogni innovazione incontra ostacoli specifici che vanno dalla necessità di validare un prototipo alla ricerca di un posizionamento competitivo. Eppure, alcune esperienze offrono spunti utili per trarre lezioni operative. Uno di questi casi è Crimson Hexagon, nata da un algoritmo progettato per analizzare grandi quantità di testo non strutturato con l’obiettivo di estrarre informazioni sul “sentimento” espresso dagli utenti online nei confronti di temi, marchi o prodotti. Questa tecnologia, inizialmente sperimentata su contenuti legati a campagne elettorali, è stata riconosciuta per la capacità di aggregare dati complessi e comprendere meglio le opinioni diffuse tra i consumatori, trasformandole in indicatori utili per finalità commerciali. La strategia perseguita da Crimson Hexagon dimostra che orientare una scoperta accademica verso esigenze reali del mercato, quali la misurazione dell’atteggiamento dei clienti nei confronti di un prodotto, non solo attira investitori e potenziali partner, ma offre anche una traccia per generare valore tangibile. Un altro esempio significativo è rappresentato da GnuBIO, una società impegnata nell’impiego di tecnologie di microfluidica nel sequenziamento del DNA. Partendo dal lavoro di ricerca su emulsioni e flussi a scala microscopica, GnuBIO ha saputo selezionare e ottimizzare soluzioni destinate a un contesto emergente come la diagnostica genomica, un settore in forte crescita e con una domanda orientata verso strumenti più precisi e accessibili. Questa capacità di operare in un mercato ancora poco affollato, puntando su una tecnologia con potenziale applicativo chiaro, ha permesso di ottenere l’attenzione di capitali in grado di accompagnare la fase di sviluppo. Non è stato solo l’aspetto scientifico a determinare la credibilità dell’iniziativa, ma la visione strategica e la consapevolezza di come integrare le competenze maturate nel laboratorio con una prospettiva di impresa, coinvolgendo figure capaci di trasformare le soluzioni tecniche in strumenti commerciali. In questi esempi, l’Harvard University Office of Technology Development ha giocato un ruolo cruciale nell’indirizzare e supportare i fondatori verso scelte ponderate, dalla definizione del portafoglio brevettuale fino alle modalità di presentazione a investitori e partner industriali. L’esperienza di Crimson Hexagon e GnuBIO mostra quanto sia decisivo “conoscere il proprio mercato di riferimento” ed esercitare una “gestione strategica dell’innovazione”. Non si tratta di agire in modo estemporaneo, ma di identificare fin dalle prime fasi i bisogni reali a cui rivolgersi, impostare un modello di business coerente, garantire l’esistenza di diritti di proprietà intellettuale solidi e costruire un team pronto a fare scelte mirate. Così, dal laboratorio si approda a mercati complessi con maggiore sicurezza, trasformando asset scientifici in prodotti e servizi ricercati. Conclusioni Il passaggio da un brevetto universitario a un’impresa strutturata non è un percorso lineare, ma un delicato equilibrio tra scelte strategiche e vincoli esterni. Anche altre tecnologie già diffuse sul mercato seguono percorsi affini, spesso sfruttando il supporto di incubatori privati, programmi di accelerazione dedicati alle startup o iniziative di open innovation, cioè collaborazioni tra aziende consolidate e giovani imprese innovative finalizzate a individuare nuove soluzioni e strategie. La differenza, rispetto a ciò che è già disponibile sul mercato, risiede nella capacità di trasformare le conoscenze sviluppate in ambito universitario in opportunità concrete, grazie a strumenti legali e finanziari che diminuiscono il rischio e rendono più prevedibile il percorso di sviluppo. Per le aziende già affermate, questo approccio porta conseguenze significative, poiché impone di riconsiderare come integrare le innovazioni provenienti dal mondo accademico nelle proprie strategie di crescita. Integrare idee provenienti dalla ricerca consente di acquisire vantaggi competitivi, ma richiede di negoziare diritti sulla proprietà intellettuale e di accogliere team provenienti da ambienti di ricerca. Un manager informato riconosce che la creazione di startup da brevetti universitari non elimina i rischi, ma offre una prospettiva di crescita in segmenti di mercato ad alta intensità di conoscenza. In definitiva, ciò che emerge non è un modello lineare, bensì un insieme di strategie coordinate, in cui la collaborazione tra atenei, uffici di trasferimento tecnologico, investitori e imprenditori abili nel leggere i segnali del mercato può condurre a risultati che s’inseriscono con intelligenza nel panorama competitivo esistente, creando occasioni di sviluppo per chi sa interpretarne il potenziale in modo ponderato. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/Dal-laboratorio-universitario-al-mercato-una-guida-alla-creazione-di-startup-accademiche-e2sfq1t Fonte: https://otd.harvard.edu/uploads/Files/OTD_Startup_Guide.pdf
- Audit of Data Preprocessing in AI: Integrity, Compliance, and Strategic Value
In today’s AI landscape, the data preprocessing phase is not merely a technical step, but a crucial moment to ensure the quality, reliability, and consistency of the information on which models will rely. This perspective leads us to consider auditing as a strategic tool: not just a formal verification, but a continuous safeguard that anticipates errors, distortions, and gaps. Over the course of this article, the main aspects of this type of oversight will be analyzed, from the need to ensure data integrity and traceability to the ability to reduce false alarms in the security domain; from the optimization of transformations to the identification of hidden biases, thus improving fairness and representativeness. Practical implications for executives and entrepreneurs aiming for scalable, robust models ready to face tomorrow’s challenges will also be illustrated, in a scenario where AI is consolidating itself as a strategic asset to be managed with awareness. Audit of Data Preprocessing in AI: Integrity, Compliance, and Strategic Value The Strategic Importance of Auditing in the Data Preprocessing Phase The need for thorough and continuous auditing in the data preprocessing phase emerges strongly when considering the use of AI systems in sensitive areas such as finance, healthcare, or cybersecurity. Organizations that adopt machine learning solutions, without adequate checks, risk making critical decisions based on inconsistently prepared data. In this phase, the audit is not limited to a formal control but becomes a tool to ensure that the data used reflects reality and does not introduce hidden distortions between the lines. Every model developed often relies on a heterogeneous data foundation. A well-structured audit makes it possible to systematically examine internal procedures and adopted guidelines. A concrete example is provided by the early risk analysis methodology developed by MindBridge Analytics Corp., which uses data curation processes to anticipate potential anomalies. Although complex, this approach lays the groundwork for building more stable models, reducing the probability of erroneous assessments based on unreliable sources. The preprocessing audit, therefore, becomes an essential safeguard for those seeking to generate value through AI, preventing systematic errors, incomplete data, or inconsistent formats from undermining the credibility of developed applications. This type of control can anticipate problems that would only emerge in later stages, thereby preventing waste and protecting investments in advanced technology. From Data Collection to Ensuring Integrity In the world of AI, data quality is the first step toward reliable results. Before any sophisticated algorithm comes into play, it’s necessary to ensure that the collected data is consistent with the model’s objectives. An audit focused on preprocessing intervenes at this point, verifying that information sources are controlled, reliable, and that acquisition procedures are documented transparently. In the field of detecting IT anomalies, improving data quality can reduce errors and false alarms. A concrete case in the cybersecurity sector demonstrates that, thanks to a meticulous process of preprocessing system logs— including cleaning raw data, removing irrelevant information, and normalizing formats—it was possible to achieve an estimated 65% reduction in false positives. This improvement significantly increases the reliability of anomaly alerts, allowing security managers to focus resources and attention on real potential threats rather than erroneous signals. This reduction not only makes alarm systems more effective but also enables analysts to concentrate their efforts on genuinely suspicious events, avoiding the waste of time and resources on baseless alerts. Improving data quality is also a strategic investment for corporate executives and entrepreneurs who aim for scalable models. A clean and consistent dataset increases trust in the system, minimizes subsequent corrective interventions, and enables the construction of more robust analytical workflows. Introducing audit procedures at this stage ensures that every transformation is traceable, with data that can be easily retrieved and managed, promoting a culture of responsibility and operational accuracy. Transformations, Normalizations, and Operational Optimizations The preprocessing phase does not end with mere data cleaning but includes processes of transformation, normalization, and variable encoding. Techniques such as feature scaling, category encoding, and dimensionality reduction serve to make data more suitable for machine learning models, reducing complexity and making result interpretation more manageable. An effective audit not only confirms the correct application of these techniques but also evaluates their consistency with the final objectives. The impact of well-executed transformations does not stop at improving accuracy; it also affects processing speed. A well-structured and controlled preprocessing phase can achieve a tripling of analysis speed, illustrating how intelligent data preparation can offer a significant operational advantage. In scenarios where responsiveness is crucial, such as the instantaneous identification of anomalies in large volumes of information, optimizing the preprocessing phase becomes a competitive factor. By way of example, if a company must evaluate the reliability of digital transactions in real time, rigorous and audited preprocessing makes the model’s training phase more efficient, reducing waiting times and enabling timely decisions. This kind of benefit extends to multiple sectors: from logistics to manufacturing, from e-commerce to healthcare, every AI system can benefit from data transformed coherently and validated meticulously. Addressing Bias and Ensuring Fairness Auditing preprocessing plays a crucial role in controlling bias and discrimination that can lurk within data. The choices made at this stage determine the representativeness of different categories and the neutrality of outcomes. If data sources are unbalanced, the AI will produce skewed evaluations, with potentially severe ethical and legal consequences. Intervening in preprocessing can achieve a doubling of the model’s fairness. This fairness is expressed in the reduction of treatment disparities among different groups. If properly monitored, this improvement can be validated with a 95% confidence level, increasing the certainty that the corrective action truly mitigated discriminatory effects. For executives and entrepreneurs, understanding the impact of preprocessing on fairness is not just a moral question but also one of reputation and compliance. A system that could potentially infringe upon rights and opportunities risks exposing the company to regulatory interventions and damage to its image. A well-structured audit allows for accurate checks on how data is processed, providing a clear framework for strategic choices that consider not only profit but also inclusion and the reliability perceived by the public and partners. Consolidating Model Robustness and Looking Ahead After ensuring data quality, coherent transformations, and neutrality, the preprocessing audit verifies the stability of models over time. If the input data has been rigorously prepared, the results will be more reliable and resistant to changing scenarios. The ability to adapt models to new contexts, without sacrificing transparency and compliance with regulations, becomes an added value. Preprocessing techniques are not static. The rapid evolution of machine learning technologies, the development of new data transformation algorithms, and the spread of solutions for privacy-preserving analysis open up different perspectives. Continuous auditing ensures that preprocessing methods are updated as new regulations or more effective tools emerge. Operational examples of auditing approaches can be found in contexts where ensuring ever more accurate data is vital. If a company plans to integrate heterogeneous sources—such as IoT sensors and external databases—audited preprocessing facilitates scalability, increases model solidity, and enables more informed decision-making. This forward-looking stance finds strength in the awareness that the entire process, from raw data to the final model, has been monitored to guarantee integrity and reliability. Conclusions The practice of auditing data preprocessing highlights profound implications for the business world. Attention is not limited to correctness or legal compliance but touches upon the ability to support long-term strategies founded on credible, distortion-free data. Compared to existing technologies, often focused on simple quality checks or superficial corrections, this approach enables consideration of the entire data life cycle. It’s not a matter of perfection, but of the maturity of the approach. While traditional tools tend to examine individual elements, auditing the preprocessing phase takes a broader view. This comparison with the state of the art suggests that, for executives aiming for truly sustainable AI models, the key is not to exploit a single faster or more powerful solution but to select and control every step to obtain a set of coherent, interpretable, and secure data. The challenge is to integrate such audits into a dynamic and competitive entrepreneurial context. The originality of the approach lies in the understanding that every future model will inherit strengths and weaknesses from its past. Adopting a structured preprocessing audit from the outset means building more solid foundations, creating a digital ecosystem less exposed to surprises, and fostering strategies that can interact harmoniously with emerging technological transformations. AI, understood as a strategic asset, benefits from controls that go beyond established standards, allowing for anticipation of future scenarios with greater operational peace of mind and more reliable decision-making. Podcast: https://spotifycreators-web.app.link/e/pQhK1ZFhpPb
- Audit della pre-elaborazione dei dati nell'AI: integrità, conformità e valore strategico
Nel panorama attuale dell’intelligenza artificiale, la fase di pre-elaborazione dei dati non è un semplice passaggio tecnico, ma un momento cruciale per garantire qualità, affidabilità e coerenza delle informazioni su cui poggeranno i modelli. Questa prospettiva porta a considerare l’audit come strumento strategico: non solo verifica formale, ma presidio continuo che anticipa errori, distorsioni e lacune. Nel corso dell’articolo verranno analizzati i principali aspetti di questo controllo, dalla necessità di assicurare integrità e tracciabilità dei dati alla capacità di ridurre falsi allarmi in ambito sicurezza; dall’ottimizzazione delle trasformazioni fino all’individuazione di bias nascosti, così da migliorare equità e rappresentatività. Verranno inoltre illustrate le implicazioni pratiche per dirigenti e imprenditori che puntano a modelli scalabili, solidi e pronti ad affrontare il domani, in uno scenario in cui l’AI si consolida come asset strategico da gestire con consapevolezza. Audit della pre-elaborazione dei dati nell'AI: integrità, conformità e valore strategico L’importanza strategica dell’audit nella fase di pre-elaborazione dei dati La necessità di un audit approfondito e continuo nella fase di pre-elaborazione dei dati emerge con forza quando si considera l’impiego di sistemi AI in ambiti delicati come la finanza, la sanità o la sicurezza informatica. Le organizzazioni che adottano soluzioni di machine learning, in assenza di verifiche adeguate, rischiano di basare decisioni critiche su dati preparati in modo incoerente. L’audit in questa fase non si limita a un controllo formale, ma diviene uno strumento per garantire che i dati impiegati riflettano la realtà e non introducano distorsioni nascosti tra le righe.Ogni modello sviluppato poggia su una base di dati spesso eterogenea. Un audit ben strutturato consente di esaminare con metodo le procedure interne e le linee guida adottate. Un esempio concreto è offerto dalla metodologia di analisi anticipata del rischio sviluppata da MindBridge Analytics Corp., che adotta processi di data curation per individuare in anticipo possibili anomalie. Tale approccio, seppur complesso, pone le fondamenta per costruire modelli più stabili, riducendo la probabilità di valutazioni scorrette basate su fonti poco affidabili. L’audit di pre-elaborazione, quindi, rappresenta un presidio essenziale per chi desidera generare valore attraverso l’AI, evitando che errori sistematici, dati incompleti o formati non coerenti possano minare la credibilità delle applicazioni sviluppate. Questo tipo di controllo può anticipare i problemi che emergeranno solo nelle fasi successive, prevenendo sprechi e salvaguardando gli investimenti in tecnologia avanzata. Dalla raccolta dei dati alla garanzia di integrità Nel mondo dell’AI, la qualità dei dati rappresenta il primo passo verso risultati affidabili. Prima di qualsiasi sofisticato algoritmo, è necessario assicurare che i dati raccolti siano coerenti con gli obiettivi del modello. Un audit mirato alla pre-elaborazione interviene su questo punto, verificando che le fonti di informazione siano controllate, affidabili, e che le procedure di acquisizione siano documentate in modo trasparente. Nelle attività di rilevazione delle anomalie informatiche, un miglioramento della qualità dei dati può ridurre errori e falsi allarmi. Un caso concreto nel settore della sicurezza informatica dimostra che, grazie a un meticoloso processo di pre-elaborazione dei log di sistema, comprendente pulizia dei dati grezzi, rimozione di informazioni non pertinenti e normalizzazione dei formati, è stato possibile ottenere una riduzione dei falsi positivi stimata intorno al 65%. Questo miglioramento incrementa sensibilmente l’affidabilità delle segnalazioni di anomalie, permettendo ai responsabili della sicurezza di concentrare risorse e attenzione su potenziali minacce reali anziché su segnalazioni errate. Questa diminuzione non solo rende più efficaci i sistemi di allarme, ma consente agli analisti di concentrare gli sforzi su eventi realmente sospetti, evitando di disperdere tempo e risorse su segnalazioni prive di fondamento. Migliorare la qualità dei dati è anche un investimento strategico per dirigenti aziendali e imprenditori che mirano a modelli scalabili. Un dataset pulito e coerente aumenta la fiducia nel sistema, minimizza gli interventi correttivi successivi e permette di costruire workflow di analisi più robusti. L’adozione di procedure d’audit in questa fase garantisce che ogni trasformazione sia tracciabile, con dati facilmente rintracciabili e gestibili, promuovendo una cultura della responsabilità e dell’accuratezza operativa. Trasformazioni, normalizzazioni e ottimizzazioni operative La fase di pre-elaborazione non si limita alla mera pulizia dei dati, ma include processi di trasformazione, normalizzazione e codifica delle variabili. Tecniche come la scalatura delle feature, l’encoding delle categorie e la riduzione dimensionale servono a rendere i dati più adatti ai modelli di machine learning, riducendo complessità e rendendo più agevole l’interpretazione dei risultati. Un audit efficace non solo accerta la corretta applicazione di queste tecniche, ma ne valuta la coerenza con gli obiettivi finali. L’impatto di trasformazioni ben eseguite non si esaurisce nel miglioramento della precisione, ma interessa anche la rapidità di elaborazione. Un processo di pre-elaborazione ben strutturato e controllato consente di raggiungere una velocità di analisi triplicata , evidenziando come una preparazione intelligente dei dati possa offrire un significativo vantaggio operativo. In scenari in cui la reattività è cruciale, come nell’identificazione istantanea di anomalie su ampi volumi di informazioni, l’ottimizzazione della fase di preprocessing diventa un fattore competitivo. Esemplificando, se un’azienda deve valutare in tempo reale l’affidabilità di transazioni digitali, una pre-elaborazione rigorosa e auditata rende più efficiente la fase di addestramento del modello, riducendo i tempi di attesa e consentendo decisioni tempestive. Questo tipo di beneficio si estende a molteplici settori: dalla logistica alla produzione, dall’e-commerce all’assistenza sanitaria, ogni sistema AI può trarre vantaggio da dati trasformati in modo coerente e validati meticolosamente. Affrontare il bias e garantire equità L’audit della pre-elaborazione assume un ruolo cruciale anche nel controllo di bias e discriminazioni che possono annidarsi nei dati. Le scelte fatte in questa fase determinano la rappresentatività delle diverse categorie e la neutralità dei risultati. Se la fonte dei dati è squilibrata, l’AI produrrà valutazioni distorte, con conseguenze potenzialmente gravi sul piano etico e legale. Intervenire sul preprocessing può ottenere un raddoppio dell’equità del modello. Questa equità si esprime nella riduzione di disparità di trattamento tra gruppi diversi. Tale miglioramento, se adeguatamente monitorato, può essere validato con un livello di affidabilità del 95% , aumentando così la certezza che l’intervento correttivo abbia davvero mitigato effetti discriminatori. Per dirigenti e imprenditori, comprendere l’impatto della pre-elaborazione sulla fairness non è solo una questione morale, ma anche di reputazione e conformità. Un sistema potenzialmente lesivo di diritti e opportunità rischia di esporre l’azienda a interventi normativi e danni di immagine. Un audit ben impostato consente di impostare controlli accurati su come i dati vengono trattati, fornendo un quadro nitido per scelte strategiche che guardino non solo al profitto, ma anche all’inclusione e all’affidabilità percepita dal pubblico e dai partner. Consolidare la solidità dei modelli e guardare al domani Dopo aver garantito qualità, trasformazioni coerenti e neutralità dei dati, l’audit della pre-elaborazione verifica la stabilità dei modelli nel tempo. Se i dati in ingresso sono stati preparati con rigore, i risultati saranno più affidabili e resistenti ai cambiamenti di scenario. La capacità di adattare i modelli a nuovi contesti, senza dover rinunciare a trasparenza e rispetto delle normative, diventa un valore aggiunto. Le tecniche di pre-elaborazione non sono statiche. La rapida evoluzione delle tecnologie di machine learning, lo sviluppo di nuovi algoritmi di data transformation e la diffusione di soluzioni per la privacy-preserving analysis aprono prospettive diverse. Un audit costante garantisce di aggiornare i metodi di preprocessing quando emergono nuove normative o strumenti più efficaci. Esempi operativi di approcci di auditing sono riscontrabili nei contesti in cui è vitale garantire dati sempre più accurati. Se un’azienda pianifica di integrare fonti eterogenee, come sensori IoT e database esterni, la pre-elaborazione auditata agevola la scalabilità, incrementa la solidità dei modelli e permette decisioni più informate. Questa proiezione nel futuro trova un punto di forza nella consapevolezza che l’intero processo, dal dato grezzo al modello finale, è stato monitorato per garantire integrità e affidabilità. Conclusioni La pratica di audit della pre-elaborazione dei dati mette in luce implicazioni profonde per il mondo delle imprese. L’attenzione non si limita alla correttezza o alla conformità legale, ma tocca la capacità di sostenere strategie di lungo periodo fondate su dati credibili e privi di distorsioni. Rispetto alle tecnologie già esistenti, spesso concentrate su semplici controlli di qualità o correzioni superficiali, questa impostazione consente di considerare l’intero ciclo di vita dei dati. Non è una questione di perfezione, ma di maturità dell’approccio. Mentre gli strumenti tradizionali tendono a esaminare singoli elementi, l’audit della fase di pre-elaborazione assume una visione più ampia. Questo confronto con lo stato dell’arte suggerisce che, per i dirigenti che puntano a modelli di intelligenza artificiale realmente sostenibili, la chiave non sta nello sfruttare una singola soluzione più veloce o più potente, bensì nel selezionare e controllare ogni passaggio per ottenere un insieme di dati coerenti, interpretabili e sicuri. La sfida è integrare tali audit in un contesto imprenditoriale dinamico e competitivo. L’originalità dell’approccio risiede nella consapevolezza che ogni modello futuro erediterà pregi e difetti dal proprio passato. Adottare fin da subito un controllo strutturato della pre-elaborazione significa costruire basi più solide, creare un ecosistema digitale meno esposto a sorprese e favorire strategie che possano interagire armonicamente con le trasformazioni tecnologiche emergenti. L’AI, intesa come asset strategico, beneficia di controlli che vanno oltre gli standard consolidati e consentono di anticipare i futuri scenari con maggiore serenità operativa e affidabilità decisionale. Podcast: https://spotifycreators-web.app.link/e/UB7fEW8fpPb
- Framework AI Chimera: A new approach for accurate retrosynthesis prediction
“Chimera: Accurate retrosynthesis prediction by ensembling models with diverse inductive biases” is the title of the research conducted by Krzysztof Maziarz, Guoqing Liu, and Hubert Misztela, in collaboration with Microsoft Research AI for Science, Novartis Biomedical Research, and Jagiellonian University. The study addresses the issue of chemical retrosynthesis, that is, predicting the reaction steps required to obtain a target molecule from simple reagents, by leveraging Machine Learning models combined into a single framework. This research fits into the domain of applying artificial intelligence to the synthetic planning of molecules of pharmaceutical and industrial interest. Framework AI Chimera: A new approach for accurate retrosynthesis prediction The challenge of retrosynthesis and the role of Machine Learning Chemical retrosynthesis prediction has long been a critical point in developing new molecules, both in the pharmaceutical field and in related industries. Classical approaches, based on expert systems and manually coded rules, have struggled to scale up to complex or infrequent reactions. The emergence of Machine Learning methods has opened up different perspectives, allowing models to be fed large quantities of known reactions and to extract useful patterns for predicting how to break down a molecule into simpler reagents. In recent years, various models have attempted to capture the logic of retrosynthesis. Some focus on applying transformation rules to the molecular ring, while others concentrate on generating reagents from scratch, starting from the desired product. However, the presence of rare or underrepresented reactions in training data has often limited accuracy. For business executives or R&D managers, this translates into the need to allocate internal resources to manually verify the suggested routes, slowing the transition from design to experimentation. A tool capable of predicting transformations more robustly and reliably is therefore required.A concrete example: imagine a company needing to identify a synthetic route for a complex bioactive molecule that is scarcely documented in the literature. A traditional ML model might produce incomplete or chemically implausible routes if the molecule differs too much from known cases. Conversely, a more robust model would be able to propose feasible synthetic paths and reduce the burden on chemists who would otherwise have to laboriously develop alternatives by hand. The Chimera framework: principles and architecture The heart of the research is expressed through Chimera, a meta-framework that combines retrosynthesis models with different inductive biases. The idea is simple yet powerful: instead of relying on a single model, Chimera integrates models that adopt distinct strategies. Some approaches are based on editing existing molecular templates (template-based), while others generate reagent structures from scratch (template-free). Bringing these viewpoints together provides a broader horizon, allowing different weights to be assigned to suggestions and valuing those that are consistent across multiple sources. At the core of Chimera lies a specifically optimized ensembling scheme. The system learns to combine the lists of candidate reactions produced by each model, prioritizing those that appear in top positions and are in agreement among several sources. The algorithm learns the ensemble weights to maximize validation accuracy, ensuring that the final predictions are more robust than the individual contributions.For entrepreneurs seeking stable results, this architecture offers a tangible advantage: it reduces uncertainty regarding which proposals to consider. Think of a scenario where a single model provides unreliable hypotheses. The presence of a second model with different constructive biases can highlight better options. A business leader interested in investing in complex chemical projects will find in Chimera a tool that mitigates the risk of relying on a single computational perspective. Experimental performance on public datasets (USPTO) Validating on public data is essential for measuring an approach’s effectiveness. Chimera was tested on widely used datasets in the scientific community, such as USPTO-50K and USPTO-FULL, both popular benchmarks for evaluating retrosynthesis. The quantitative results show a significant gain over individual models. For example, considering top-10 accuracy (the probability that the correct reaction appears among the first 10 proposals), Chimera improves by 1.7% on USPTO-50K and 1.6% on USPTO-FULL compared to the state of the art. Although these might initially seem like modest increments, they become substantial when applied to particularly complex molecules. Every percentage point gained represents a reduction in the manual labor needed to filter out inappropriate reactions. From an operational perspective, if a laboratory manager aims to find reliable routes for dozens of new molecules, even small differences in accuracy translate into significant savings in time and effort. Having a range of options with high chemical consistency, without having to sift through hundreds of implausible solutions, is strategically valuable for accelerating development projects. Scalability and generalization: results on Pistachio and industrial data Chimera is not limited to classic datasets. Tested on Pistachio, a more extensive and curated reaction database, the framework also demonstrated high performance on rare or underrepresented reactions, showing strong generalization capabilities. Thanks to the integration of different types of models, Chimera can operate effectively in less explored contexts while maintaining reliability. A practical example: with just 10 Chimera predictions, one can achieve a quality comparable to what a single reference model obtains with 50 predictions, significantly reducing the manual review of solutions. Moreover, transferring the model without retraining to an internal set of about 10,000 reactions from a major pharmaceutical company (Novartis) confirms the framework’s solidity even when faced with a distributional shift—situations in which the reactions in the new context differ substantially from the training data. Improving over individual models on industrial data highlights a concrete opportunity for companies: reducing the time required to identify viable synthetic routes and lowering uncertainty in chemical research. Strategic implications and quality of predictions One key question concerns the actual quality of the proposed solutions. It is not enough merely to obtain the exact target reaction; it is also necessary that the alternative solutions be chemically plausible. Internal tests with organic chemists have evaluated Chimera’s predictions, showing a preference for its suggestions compared to those of single models. This confirms not only the framework’s ability to recover known reactions but also to suggest reagent-product pathways that make sense from a chemical perspective. For a manager, such a scenario means having a tool capable of proposing not only the “official” route found in the literature but also alternative synthetic paths of comparable quality, ready to be tested experimentally. For instance, if a classic route proves impractical due to the lack of certain reagents, it is helpful to have chemically coherent alternatives suggested by the model. This robustness reduces the risk of impasse, enables more efficient resource use, and accelerates the iterative cycles of design and validation, increasing the chances of identifying interesting molecules for new industrial projects. Conclusions The analysis of the Chimera research results suggests a scenario in which combined retrosynthesis models can overcome the limitations of individual approaches. The observation that merging different inductive biases increases the reliability of predictions, even for rare reactions and in new temporal and structural contexts, opens up prospects for integration with existing tools. Companies accustomed to classical systems could integrate Chimera as a decision-support module to identify non-obvious synthetic routes, reducing waste and minimizing failed laboratory attempts. Compared to existing technologies, Chimera does not diminish the importance of human experts but rather enhances their work. Unlike similar methods, the ensemble approach provides a broader viewpoint: where a single model tends to propose routes similar to those seen in the past, the interaction of different models produces more dynamic solutions. For business executives, the increased stability offered by multiple models can contribute to more effective research strategies, decreasing uncertainty and optimizing workflows.The future scenario remains open: one could consider extending the Chimera framework to even larger models or integrating additional sources of information, such as internal corporate databases enriched with specialized knowledge. The objective is not to replace chemists but to provide them with more flexible and accurate tools for navigating an increasingly complex molecular landscape. In this sense, Chimera could become an important component in an innovation-oriented strategy aimed at generating new synthetic ideas and maximizing the potential of advanced chemical research. Podcast: https://spotifycreators-web.app.link/e/h7cUB3bVoPb Source: https://arxiv.org/abs/2412.05269
- Framework AI Chimera: Un nuovo approccio per la previsione accurata di retrosintesi
“ Chimera: Accurate retrosynthesis prediction by ensembling models with diverse inductive biases ” è il titolo della ricerca condotta da Krzysztof Maziarz , Guoqing Liu e Hubert Misztela , in collaborazione con Microsoft Research AI for Science , Novartis Biomedical Research e Jagiellonian University . Lo studio affronta il tema della retrosintesi chimica, ossia la previsione dei passaggi di reazione necessari per ottenere una molecola target da reagenti semplici, sfruttando modelli di Machine Learning combinati in un unico framework. Questa ricerca si inserisce nel campo dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alla pianificazione sintetica di molecole d’interesse farmaceutico e industriale. Framework AI Chimera: Un nuovo approccio per la previsione accurata di retrosintesi La sfida della retrosintesi e il ruolo del Machine Learning La previsione della retrosintesi chimica rappresenta da tempo un nodo critico nello sviluppo di nuove molecole, sia in ambito farmaceutico che in settori affini. Gli approcci classici, basati su sistemi esperti e regole codificate manualmente, hanno mostrato difficoltà nello scalare verso reazioni complesse o poco frequenti. La comparsa di metodi di Machine Learning ha aperto prospettive diverse, consentendo di alimentare i modelli con grandi quantità di reazioni note e di estrarne pattern utili per prevedere come scomporre una molecola in reagenti semplici. Negli ultimi anni, diversi modelli hanno tentato di catturare le logiche della retrosintesi. Alcuni puntano sull’applicazione di regole di trasformazione dell’anello molecolare, altri sulla generazione ex novo dei reagenti, partendo dal prodotto desiderato. Tuttavia, la presenza di reazioni rare o poco rappresentate nei dati di addestramento ha spesso limitato l’accuratezza. Per i dirigenti d’azienda o i responsabili R&D, ciò si traduce nella necessità di dedicare risorse interne a verificare manualmente le rotte suggerite, rallentando il passaggio dalla progettazione alla sperimentazione. Occorre dunque uno strumento in grado di prevedere trasformazioni con maggiore robustezza e affidabilità. Un esempio concreto: immaginiamo un’impresa che deve individuare un percorso sintetico per una molecola bioattiva complessa, poco documentata in letteratura. Un modello ML tradizionale potrebbe generare rotte incomplete o chimicamente implausibili se la molecola si discosta troppo dai casi noti. Per contro, un modello più robusto saprebbe proporre vie sintetiche percorribili e ridurre l’onere dei chimici nell’elaborare manualmente alternative. Il framework Chimera: principi e architettura Il cuore della ricerca si esprime con Chimera , un meta-framework che combina modelli di retrosintesi con bias induttivi diversi. L’idea è semplice ma potente: invece di affidarsi a un singolo modello, Chimera integra modelli che adottano strategie distinte. Alcuni approcci si basano sull’editing di schemi molecolari preesistenti (template-based), altri generano le strutture dei reagenti da zero (template-free). L’unione di queste visioni fornisce un orizzonte più ampio, permettendo di assegnare pesi differenti ai suggerimenti e di valorizzare quelli più coerenti fra molteplici fonti. Alla base di Chimera vi è uno schema di ensembling appositamente ottimizzato. Il sistema impara a combinare le liste di reazioni candidate prodotte da ogni modello, privilegiando quelle che compaiono con posizioni elevate e concordi fra più fonti. L’algoritmo impara i pesi di ensemble in modo da massimizzare l’accuratezza di validazione, garantendo che le previsioni finali siano più robuste dei singoli contributi. Per gli imprenditori alla ricerca di stabilità dei risultati, questa architettura offre un vantaggio concreto: riduce l’incertezza su quali proposte tenere in considerazione. Se si pensa a un caso dove un singolo modello fornisce ipotesi poco attendibili, la presenza di un secondo modello con bias costruttivi differenti può far emergere opzioni migliori. Un dirigente che desidera investire in progetti chimici complessi troverà in Chimera uno strumento che mitiga il rischio di affidarsi a un’unica prospettiva computazionale. Prestazioni sperimentali su dataset pubblici (USPTO) La validazione su dati pubblici è fondamentale per misurare l’efficacia di un approccio. Chimera è stato testato su dataset ampiamente utilizzati nella comunità scientifica, come USPTO-50K e USPTO-FULL , popolari benchmark per valutare la retrosintesi. I risultati quantitativi mostrano un significativo guadagno rispetto ai singoli modelli. Ad esempio, considerando il top-10 accuracy (la probabilità che la reazione corretta compaia nelle prime 10 proposte), Chimera migliora di 1,7% su USPTO-50K e di 1,6% su USPTO-FULL rispetto allo stato dell’arte. Sebbene a prima vista possano sembrare incrementi contenuti, tali miglioramenti diventano sostanziali quando si applicano i modelli a molecole particolarmente complesse. Ogni punto percentuale guadagnato rappresenta una riduzione del lavoro manuale necessario per filtrare reazioni non appropriate. In termini operativi, se un responsabile di laboratorio chimico punta a trovare rotte affidabili per decine di nuove molecole, anche piccole differenze di accuratezza si traducono in significativi risparmi di tempo ed energia. La possibilità di avere un ventaglio di opzioni ad alta coerenza chimica, senza dover setacciare centinaia di soluzioni non plausibili, risulta strategica per accelerare i progetti di sviluppo. Scalabilità e generalizzazione: risultati su Pistachio e dati industriali Chimera non si limita ai dataset classici. Testato su Pistachio , un database di reazioni più esteso e curato, il framework ha mostrato prestazioni elevate anche su reazioni rare o scarsamente rappresentate, dimostrando una robusta capacità di generalizzazione. Grazie all’unione delle diverse tipologie di modelli, Chimera riesce ad agire in contesti poco esplorati, mantenendo affidabilità. Un esempio operativo: con sole 10 previsioni di Chimera si raggiunge una qualità equiparabile a quella che un singolo modello di riferimento ottiene con 50 previsioni, riducendo notevolmente l’esame manuale delle soluzioni. Non solo. Il trasferimento del modello, senza riaddestramenti, a un set interno di circa 10.000 reazioni provenienti da un’importante realtà farmaceutica (Novartis) conferma la solidità del framework anche di fronte a uno shift distributivo, ossia situazioni in cui le reazioni del nuovo contesto differiscono sostanzialmente dai dati di addestramento. Il fatto di registrare miglioramenti rispetto ai singoli modelli anche su dati industriali evidenzia un’opportunità concreta per le aziende: la riduzione del tempo necessario per individuare rotte sintetiche valide e la diminuzione dell’incertezza nella ricerca chimica. Implicazioni strategiche e qualità delle previsioni Una delle domande chiave riguarda la qualità effettiva delle soluzioni proposte. Non basta infatti ottenere l’esatta reazione target, occorre che anche le soluzioni alternative siano chimicamente plausibili. Test interni con chemici organici hanno valutato le previsioni di Chimera, evidenziando una preferenza per le sue proposte rispetto a quelle dei modelli singoli. Ciò conferma non solo la capacità del framework di recuperare la reazione nota, ma anche di suggerire percorsi reagenti-prodotti che hanno senso dal punto di vista chimico. Per un manager, un tale scenario significa disporre di uno strumento in grado di proporre non solo la rotta “ufficiale” trovata in letteratura, ma anche vie sintetiche di qualità comparabile, pronte per essere testate sperimentalmente. Ad esempio, se una rotta classica si rivela impraticabile per mancanza di alcuni reagenti, è utile avere a disposizione alternative chimicamente coerenti suggerite dal modello. Tale robustezza riduce il rischio di stallo, consente un uso più efficiente delle risorse e accelera i cicli iterativi di progettazione e validazione, aumentando le probabilità di identificare molecole interessanti per nuovi progetti industriali. Conclusioni L’analisi dei risultati della ricerca su Chimera suggerisce uno scenario in cui modelli di retrosintesi combinati possono superare i limiti dei singoli approcci. L’osservazione che la combinazione di bias induttivi diversi aumenti l’affidabilità delle previsioni, anche su reazioni rare e in contesti temporali e strutturali nuovi, apre prospettive di integrazione con strumenti esistenti. Le imprese, già abituate a sistemi classici, potrebbero integrare Chimera come un modulo di supporto decisionale per individuare rotte sintetiche non evidenti, riducendo sprechi e minimizzando tentativi fallimentari in laboratorio. Nel confronto con le tecnologie esistenti, Chimera non cancella l’importanza degli esperti umani, ma ne potenzia il lavoro. Rispetto a metodi affini, l’approccio di ensemble fornisce uno sguardo più ampio: laddove un singolo modello tende a proporre rotte simili a quelle viste in passato, l’interazione di modelli diversi produce soluzioni maggiormente dinamiche. Per i dirigenti d’azienda, la maggiore stabilità offerta dall’insieme di modelli può contribuire a strategie di ricerca più efficaci, diminuendo l’incertezza e ottimizzando i flussi di lavoro. Lo scenario futuro è aperto: si può pensare a estendere il framework Chimera a modelli di dimensioni ancora maggiori, o a integrare fonti di informazione ulteriori, come database interni aziendali arricchiti da conoscenze specialistiche. L’obiettivo non è sostituire i chimici, ma fornire loro strumenti più flessibili e precisi per muoversi in un panorama molecolare sempre più complesso. In tal senso, Chimera potrebbe diventare un tassello importante in una strategia d’innovazione orientata alla generazione di nuove idee sintetiche, massimizzando il potenziale della ricerca chimica avanzata. Podcast: https://spotifycreators-web.app.link/e/hbfDfWxToPb Fonte: https://arxiv.org/abs/2412.05269
- 2025: AI Scenarios in Business
The document titled "2025 AI Business Predictions," produced by Dan Priest (PwC US Chief AI Officer), Matt Wood (PwC US and Global Commercial Technology & Innovation Officer), and Jennifer Kosar (PwC AI Assurance Leader) together with PwC, highlights how Artificial Intelligence is becoming an integral part of corporate strategies on a global scale. The central theme revolves around the adoption of AI in business, its integration into services and operational models, the conscious management of risks, and the potential economic, social, and environmental impact. The study outlines a landscape in which strategic decisions, responsibility in data usage, and the pursuit of long-term value will guide companies toward a future shaped by increasingly autonomous and adaptable systems. 2025: AI Scenarios in Business The importance of a solid and coherent AI strategy in business The market shows how having a clear strategic vision makes it possible to integrate AI into the central structures of a business. According to PwC’s October 2024 Pulse Survey, nearly half of technology leaders have already placed AI at the core of their corporate strategy, while one-third use it within their products. This indicates that the ability to act coherently, define priorities, and allocate resources to well-calibrated projects allows organizations to capture concrete margins in areas of productivity, speed, and revenue growth. Investing in a systematic approach also means knowing how to balance incremental interventions with more ambitious initiatives. Integrating AI into a single department can yield tangible improvements, such as a 20% to 30% increase in productivity, and then replicate these gains in other company areas. A diligent business leader might start by enhancing internal services—such as tax or administrative functions—capable of delivering added value in the short term. A concrete example: a logistics services company that adopts AI to optimize delivery routes, reducing merchandise arrival times, speeding up processes, and gaining new proprietary data that can be leveraged to enter other market segments. With an advanced strategy, the company does not merely limit itself to choosing the best language model or the most suitable cloud service. Rather, it aims to leverage AI by integrating it with proprietary data, operational workflows, and analytical tools already present in the organization, making the entire system more flexible. The objective is to build a portfolio of projects that, starting from small operational steps, can evolve into more ambitious initiatives. The key lies in the ability to link each phase of the journey to the final goal, avoiding dispersion and duplication. The rise of digital workers and the evolution of internal competencies Integrating AI into the work environment is not just a matter of automation. Hybrid figures are emerging, such as AI agents—true digital workers that accompany human staff in repetitive, analytical, and support tasks. While some fear workforce contractions, the reality points to a different dynamic. AI makes virtual resources available that can increase productivity without reducing the need for the human component, thereby creating an environment where the overall workforce, including people and agents, can effectively double. According to PwC’s 2024 Workforce Radar, 41% of executives cite the relationship between training, a culture of change, and AI integration as a priority challenge. The adoption of AI agents requires a transformation in how workflows are designed. A sales division manager, for instance, could employ AI agents to analyze market data and provide human salespeople with a well-reasoned synthesis of emerging trends, thus reducing the time spent on preliminary research. These virtual assistants do not eliminate the value of human sensitivity and intuition, but rather allow creative efforts to focus on high-impact strategies and projects. Training becomes an indispensable pillar. HR departments and managers will need to update learning programs, integrating digital skills into professional development paths. A new approach to resource management will be necessary, as digital workers require a system of supervision and dedicated metrics. AI can suggest the best actions, but it is the human who leads and orchestrates decisions, maintaining control over final objectives and ensuring the responsible use of these new actors. A reliable ROI depends on a well-structured Responsible AI The return on investments in AI no longer depends solely on strategic positioning. Without a clear framework of rules, controls, and responsibilities, there is a risk of wasting resources or losing the trust of customers, partners, and authorities. According to PwC’s 2024 US Responsible AI Survey, 46% of executives believe that Responsible AI practices are fundamental for differentiating products and services. Ensuring correct and transparent use creates a competitive advantage, reducing the risk of errors that could harm a company’s reputation. Improving the credibility of AI models requires independent validation by specialized internal teams or external consultants. A practical example: a financial firm launching AI services to assess credit risks can submit its algorithms to periodic checks and transparent reviews. This approach inspires trust and allows potential defects to be identified before they appear on the market. The regulatory framework, often still evolving, should not impede action. A forward-looking company aligns itself today with rigorous standards because it knows that clearer rules will arrive in the future. There is no need to wait for a legislative mandate to strengthen supervisory systems. Acting in advance means developing internal competencies and building scalable processes capable of adapting to potential regulatory requirements. The goal is to ensure that controls become an integral part of the technology development path, not just an obstacle introduced at the end. AI as an engine of value and a lever for sustainability Adopting AI is not merely a technical matter; it becomes a strategic approach to resources. The scarcity of energy and adequate computing power can slow the indiscriminate spread of the most complex AI tools. For this reason, it is wise to focus on intelligent implementation, avoiding waste and concentrating on areas of greatest value. It is not about having more AI solutions than the competitor, but carefully choosing in which departments to invest them. According to PwC’s 2024 Cloud and AI Business Survey, 63% of high-performing companies are increasing their cloud budgets precisely to support AI capabilities. The availability of resources also affects sustainability, as the energy consumption of more advanced AI models is significant. Here emerges an opportunity: to choose suppliers and partners who rely on renewable sources and to optimize internal processes with AI to reduce energy waste. Sustainability, aided by AI, becomes more tangible. Advanced analytical tools allow precise monitoring of consumption, measurement of emission impacts, and identification of solutions to reduce the environmental footprint. As Sammy Lakshmanan (Sustainability Principal, PwC US) explains, it is not true that AI contradicts sustainability goals. A manufacturer can leverage AI to analyze the energy consumption data of a plant, reducing the time spent searching and experimenting to adopt more efficient measures. AI helps tie environmental data to operational choices, enabling executives and entrepreneurs to direct investments toward lower-impact products without sacrificing profit margins. Accelerating product development by halving time-to-market Another field of application is product development. AI can interpret digital models, simulations, and complex data to propose new configurations, test projects virtually, and identify solutions even before creating a physical prototype. The impact on research and development timelines is dramatic, with reductions of up to 50% in design cycles. An automotive company, for example, can use AI to evaluate the structural resistance of a chassis within a few hours, rather than waiting weeks for manual calculations and physical prototypes. According to PwC’s 2024 Cloud and AI Business Survey, 67% of leading companies already use AI to accelerate product and service innovation. This data suggests that those who invest in technical competencies and infrastructures to integrate AI models into design processes see tangible results in a short time frame. New professionals will be required, able to translate market needs into design specifications understandable by AI models, and vice versa. It is not only about creating new products, but rethinking the entire design chain. AI does not eliminate the role of technicians; it complements them, speeding up experimentation and expanding the range of possible solutions. This hybrid method, in which AI proposes and humans evaluate and select, allows flexibility to be reclaimed at every stage of the process, from research to market entry. Conclusions The findings suggest that AI is not just a simple tool to be integrated into the existing technological landscape, but a force capable of reorienting strategic choices across entire sectors. Those who lead a company must not limit themselves to replicating established approaches to data management or supply chains, but rather seek an integrated ecosystem in which AI interacts with traditional solutions and creates new synergies. Unlike some historical platforms that imposed stable business models over time, AI opens a highly dynamic space where competition is played out based on the ability to identify original application areas and update internal skills. This scenario tests the abilities of managers and entrepreneurs, who must move beyond incremental logic to develop a broader vision, one that anticipates evolving regulations, capitalizes on sustainability opportunities, and optimizes workflows. Existing technologies—such as predictive analytics systems or traditional machine learning methodologies—do not disappear but are joined by more versatile tools. The difference from the current state of the art does not lie in a single technological invention, but in the maturity of the new AI ecosystems capable of integrating into decision-making mechanisms. In this context, companies that want to maintain an advantage must think beyond mere adoption, focusing on internal competencies, long-term strategies, and a deeper understanding of AI’s potential in every sector—from manufacturing to finance, healthcare to consumer products—without being carried away by superficial enthusiasms. AI thus becomes a tool to shape not only immediate operations but also the future structures of the global economic fabric. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/2025-AI-Scenarios-in-Business-e2sdlu0 Source: https://www.pwc.com/us/en/tech-effect/ai-analytics/ai-predictions.html
- 2025: Scenari sull'AI nel Business
Il documento "2025 AI Business Predictions", realizzata da Dan Priest (PwC US Chief AI Officer), Matt Wood (PwC US and Global Commercial Technology & Innovation Officer) e Jennifer Kosar (PwC AI Assurance Leader) insieme a PwC, mette in luce come l'Intelligenza Artificiale stia diventando parte integrante delle strategie aziendali a livello globale. Il tema centrale riguarda l'adozione dell'AI nel business, l'integrazione nei servizi e nei modelli operativi, la gestione consapevole dei rischi e il potenziale impatto economico, sociale e ambientale. Lo studio descrive un panorama in cui decisioni strategiche, responsabilità nell'uso dei dati e ricerca di valore a lungo termine guideranno le imprese verso un futuro plasmato da sistemi sempre più autonomi e adattabili. 2025: Scenari sull'AI nel Business L’importanza di una strategia AI nel business solida e coerente Il mercato mostra come una chiara visione strategica permetta di integrare l’AI nelle strutture centrali del business. Secondo il PwC’s October 2024 Pulse Survey, quasi la metà dei responsabili tecnologici ha già inserito l’AI nel cuore della strategia aziendale, mentre un terzo la utilizza nei prodotti. È un segnale di quanto la capacità di agire con coerenza, definire priorità e allocare risorse su progetti ben calibrati consenta di cogliere margini concreti nelle aree di produttività, rapidità e crescita dei ricavi. Investire in un approccio sistematico significa anche saper bilanciare interventi incrementali con iniziative più ambiziose. L’integrazione dell’AI in un primo reparto può portare miglioramenti tangibili, come un aumento tra il 20% e il 30% nella produttività, per poi replicare questi progressi su altre aree aziendali. Un responsabile d’impresa attento potrebbe iniziare dal potenziare servizi interni, come le funzioni fiscali o amministrative, capaci di generare valore aggiuntivo già nel breve termine. Un esempio concreto: una società di servizi logistici che adotta l’AI per ottimizzare i percorsi di consegna, riducendo i tempi di arrivo della merce, accelera i processi e dispone di nuovi dati proprietari utili per aggredire altre parti del mercato. Con una strategia evoluta, l’impresa non si limita a scegliere il miglior modello linguistico o il servizio cloud più adatto. Punta piuttosto a sfruttare l'AI integrandola con dati proprietari, flussi operativi e strumenti di analisi già presenti in azienda, rendendo l’intero sistema più flessibile. L’obiettivo è costruire un portafoglio di progetti che, partendo da piccoli passi operativi, possa evolvere fino a iniziative più ambiziose. La chiave risiede nella capacità di saper collegare ogni fase del percorso all'obiettivo finale, evitando dispersioni e duplicazioni. L’ascesa dei lavoratori digitali e l’evoluzione delle competenze interne L’integrazione dell’AI nel tessuto lavorativo non è soltanto una questione di automazione. Emergono figure ibride come gli agenti AI, veri e propri lavoratori digitali che affiancano il personale umano in attività ripetitive, analitiche e di supporto. Se da un lato qualcuno teme contrazioni nella forza lavoro, dall’altro la realtà indica una dinamica differente. L’AI rende disponibili risorse virtuali capaci di incrementare la produttività senza ridurre la necessità della componente umana, creando così un ambiente dove la forza lavoro complessiva, tra persone e agenti, può raddoppiare nei fatti. Secondo PwC’s 2024 Workforce Radar, il 41% dei dirigenti cita il rapporto tra formazione, cultura del cambiamento e integrazione dell’AI come sfida prioritaria. L’adozione di agenti AI impone un mutamento nel modo di progettare i flussi di lavoro. Un responsabile di divisione vendite, ad esempio, potrebbe impiegare agenti AI per analizzare dati di mercato e fornire ai venditori umani una sintesi ragionata delle tendenze emergenti, riducendo il tempo speso in ricerche preliminari. Questi assistenti virtuali non eliminano il valore della sensibilità e dell’intuizione umana, ma consentono di focalizzare gli sforzi creativi su strategie e progetti ad alto impatto. La formazione diventa un pilastro indispensabile. Dipartimenti HR e manager dovranno aggiornare i programmi di apprendimento, integrando competenze digitali nei percorsi di crescita professionale. Occorrerà anche un nuovo approccio alla gestione delle risorse, poiché i lavoratori digitali necessitano di un sistema di supervisione e metriche dedicate. L’AI può suggerire le azioni migliori, ma è l’essere umano che guida e orchestra le decisioni, preservando il controllo sugli obiettivi finali e garantendo un uso responsabile di questi nuovi attori. Una ROI affidabile passa attraverso una Responsible AI ben strutturata Il ritorno sugli investimenti in AI non dipende più solo dal posizionamento strategico. Senza un quadro chiaro di regole, controlli e responsabilità, il rischio è di sprecare risorse o perdere fiducia da parte di clienti, partner e autorità. Secondo il PwC’s 2024 US Responsible AI Survey, il 46% dei dirigenti ritiene che le pratiche di Responsible AI siano fondamentali per differenziare prodotti e servizi. La garanzia di un utilizzo corretto e trasparente crea un vantaggio competitivo, riducendo il pericolo di errori che danneggiano la reputazione. Per migliorare la credibilità dei modelli AI serve una validazione indipendente, gestita da team interni specializzati o da consulenti esterni. Un esempio pratico: un’azienda finanziaria che lancia servizi AI per valutare i rischi di credito può sottoporre i propri algoritmi a controlli periodici e revisioni trasparenti. Questo approccio ispira fiducia e permette di intercettare difetti potenziali prima che emergano sul mercato. Il quadro normativo, spesso ancora in evoluzione, non deve bloccare l’azione. Un’impresa lungimirante si adegua già oggi a standard rigorosi, perché sa che regole più chiare arriveranno in futuro. Non serve attendere un vincolo legislativo per rafforzare i sistemi di supervisione. Agire in anticipo significa maturare competenze interne e costruire processi scalabili capaci di adattarsi a eventuali requisiti regolatori. L’obiettivo è far sì che i controlli diventino parte integrante del percorso di sviluppo tecnologico e non un semplice ostacolo posto a valle. L’AI come motore di valore e leva per la sostenibilità L’adozione dell’AI non è solo un fatto tecnico, diventa una questione di approccio strategico alle risorse. La scarsità di energia e potenza di calcolo adeguate può rallentare la diffusione indiscriminata degli strumenti AI più complessi. Per questa ragione è utile puntare su un’implementazione intelligente, evitando sprechi e concentrandosi sulle aree a maggior valore. Non conta avere più soluzioni AI del concorrente, ma scegliere con cura in quali reparti investirle. Secondo il PwC’s 2024 Cloud and AI Business Survey, il 63% delle aziende ad alte prestazioni aumenta i budget per il cloud proprio per sostenere le funzionalità AI. La disponibilità di risorse influisce anche sulla sostenibilità, poiché il consumo energetico dei modelli AI più avanzati è notevole. Qui emerge un’opportunità: scegliere fornitori e partner che adottano fonti rinnovabili e ottimizzare i processi interni con l’AI per ridurre gli sprechi energetici. La sostenibilità, grazie all’AI, diviene più tangibile. Strumenti analitici avanzati consentono di monitorare con precisione i consumi, misurare gli impatti sulle emissioni e identificare soluzioni per ridurre l’impronta ambientale. Come spiega Sammy Lakshmanan (Sustainability Principal, PwC US), non è vero che l’AI contrasta gli obiettivi di sostenibilità. Un produttore può sfruttare l’AI per analizzare i dati di consumo energetico di un impianto, riducendo i tempi di ricerca e sperimentazione per adottare misure più efficienti. L’AI aiuta a legare i dati ambientali alle scelte operative, permettendo a dirigenti e imprenditori di orientare gli investimenti verso prodotti a minor impatto, senza rinunciare a margini di profitto. Accelerare lo sviluppo prodotto riducendo i tempi della metà Un altro campo di applicazione è lo sviluppo di prodotti. L’AI è in grado di interpretare modelli digitali, simulazioni e dati complessi per proporre nuove configurazioni, testare progetti virtualmente e identificare soluzioni prima ancora di produrre un prototipo fisico. L’impatto sui tempi di ricerca e sviluppo è drastico, con riduzioni fino al 50% nei cicli di progettazione. Un’azienda automobilistica, ad esempio, può sfruttare l’AI per valutare in poche ore la resistenza di una scocca, anziché attendere settimane tra calcoli manuali e prototipi reali. Secondo il PwC’s 2024 Cloud and AI Business Survey, il 67% delle aziende ai vertici sfrutta già l’AI per accelerare l’innovazione di prodotti e servizi. Questo dato suggerisce che chi investe in competenze e infrastrutture tecniche per integrare i modelli AI nella progettazione vede risultati concreti in tempi rapidi. Saranno necessarie nuove professionalità capaci di tradurre le esigenze del mercato in specifiche di design comprensibili per i modelli AI, e viceversa. Non si tratta solo di creare nuovi prodotti, ma di ripensare la filiera della progettazione. L’AI non elimina il ruolo dei tecnici, ma li affianca, velocizzando la sperimentazione e ampliando la gamma di soluzioni possibili. Questo metodo ibrido, in cui l’AI propone e l’essere umano valuta e seleziona, permette di recuperare flessibilità in ogni stadio del percorso, dalla ricerca all’ingresso sul mercato. Conclusioni I risultati suggeriscono che l’AI non sia un semplice strumento da integrare nel panorama tecnologico già esistente, bensì una forza capace di riorientare scelte strategiche a livello di settore. Chi guida un’impresa non deve limitarsi a riprodurre approcci consolidati nella gestione dei dati o della supply chain, ma cercare un ecosistema integrato in cui l’AI interagisce con soluzioni tradizionali e crea nuove sinergie. A differenza di alcune piattaforme storiche che hanno imposto modelli di business stabili nel tempo, l’AI apre uno spazio altamente dinamico, dove la competizione si gioca sulla capacità di individuare campi di applicazione originali e di aggiornare le competenze interne. Questo scenario mette alla prova le capacità di manager e imprenditori, costretti a superare la logica incrementale per sviluppare una visione più ampia, in grado di anticipare l’evoluzione delle normative, cogliere opportunità di sostenibilità e ottimizzare flussi di lavoro. Le tecnologie esistenti, come sistemi di analisi predittiva o metodologie di machine learning tradizionali, non scompaiono ma vengono affiancate da strumenti più versatili. Lo scarto rispetto allo stato dell’arte attuale non risiede in una singola trovata tecnologica, ma nella maturità dei nuovi ecosistemi AI capaci di integrarsi nei meccanismi decisionali. In questo contesto, l’impresa che vuole mantenere un vantaggio deve pensare oltre la semplice adozione, focalizzandosi su competenze interne, strategie di lungo periodo e una comprensione più profonda del potenziale dell’AI in ogni settore, dal manifatturiero alla finanza, dalla sanità ai prodotti di consumo, senza lasciarsi trascinare da entusiasmi superficiali. L’AI diventa così uno strumento per modellare non solo l’operatività immediata, ma anche gli assetti futuri del tessuto economico globale. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/2025-Scenari-sullAI-nel-Business-e2sdlet Fonte: https://www.pwc.com/us/en/tech-effect/ai-analytics/ai-predictions.html
- Rationality, Uncertainty, and Decisions in the Contemporary World
“The war on rationality: a personal reflection” by Gerd Gigerenzer (Max Planck Institute for Human Development, Berlin, Germany), with references to the work of Daniel Kahneman and Amos Tversky, involves leading academic institutions in the field of social and psychological sciences. The research explores the tension between models of logical rationality and alternative programs grounded in heuristics and environmental contexts. The overall theme concerns the nature of human rationality in economics, cognitive psychology, and public policy, analyzing critiques, normative interpretations, cognitive effects, and perspectives on uncertainty and decision-making complexity. Rationality, Uncertainty, and Decisions in the Contemporary World Logical Rationality Between the Cold War and Economic Models During the Cold War years, the idea of logical rationality became firmly established as a foundation for interpreting and prescribing human behavior in strategic situations. Economics and the social sciences adopted the paradigm of expected utility maximization, enriched by internal consistency axioms and the use of Bayesian probability as a tool to handle linear decisions and known contexts. This approach was motivated by the desire to preserve the global order from the risk of war-related disasters, introducing the ambition to predict and constrain the choices of rulers and populations. However, it was a vision confined to small, well-defined, and easily calculable worlds. When the scientific community, starting in the 1970s, put this approach to the test, a new perspective emerged: the idea that people systematically made mistakes. Critics interpreted these findings as evidence that human beings had a limited capacity for logical reasoning. A famous 1974 study on the use of heuristics and biases in decision-making received over 15,000 citations, eclipsing earlier works that had depicted individuals as good intuitive statisticians, and demonstrating how media attention influenced the debate. This phenomenon led to viewing logical rationality not merely as a useful model but as a universal norm, overlooking its limited validity in uncertain situations. It thus became necessary to ask what really makes a decision-making strategy effective when one lacks complete data or infinite time for calculating optimal solutions. From Apparent Irrationality to Research on Cognitive Biases The emergence of the so-called “heuristics-and-biases” program led to interpreting deviations from logical standards as signs of intrinsic cognitive defects. Portraying the human mind as a fallible entity prone to distorted judgments supported the idea of a psychology of irrationality. Certain institutions, governments, and businesses capitalized on this notion to justify paternalistic interventions, arguing that the public was unable to manage risks, probabilities, and complex choices appropriately. However, a critical examination of these findings revealed no concrete evidence linking such biases to real material damage or tangible harm. There is no proof, for instance, that violating logical axioms systematically leads to economic losses or worse health outcomes. Moreover, many alleged distortions did not replicate in different experimental contexts. Careful analysis shows that participants in the initial tests often had no opportunity to learn from experience or to interact with real-world problems; instead, they were exposed to hypothetical, short-term questions. This methodological shift—from active exploration of randomness to the mere abstract questionnaire—ended up generating distorted impressions. This demonstrates how so-called irrationality depends on context, the time allocated, and the nature of the information. When individuals are given the space to understand frequencies, sets of cases, and situations in which they can experiment with data, the human ability to reason coherently improves markedly. Ecological Rationality and Heuristics as Adaptive Tools Subsequently, new currents emerged that rejected the interpretation of these deviations as fallacies, proposing the notion of ecological rationality. This approach, also inspired by the ideas of Herbert Simon, values the use of simple, algorithmically defined heuristics to make functional decisions in uncertain and complex environments. These strategies do not aim for abstract optimality but seek sufficiently good results within limited time frames, exploiting the very structure of the context. Reducing information and simplifying are not defects, but tools for adapting to concrete problems. In some circumstances, having too much data and relying on complex mathematical models does not improve accuracy, whereas simple heuristics can prove more robust. Analyses have shown that in unstable environments, characterized by sudden changes, ecological strategies can sometimes outperform sophisticated algorithms. The adoption of methods such as fast and frugal decision trees, applied in finance or healthcare, provides a tangible example. In one physician training case, just one hour of intuitive instruction enabled nearly everyone to correctly interpret diagnostic results that had previously been misunderstood. This indicates that targeted education and awareness of the environmental context can bridge the gap between logical ideals and realistic decision-making practices. Practical Dilemmas Between Nudging, Real-World Context, and Overcoming Abstract Models As the debate continued, some scholars proposed improving people’s choices by intervening in their “choice architecture,” i.e., organizing the context to encourage what were considered better behaviors. This idea, known as nudging, aimed to achieve positive outcomes simply by modifying default options or suggesting choices deemed more advantageous. Yet, when re-examining the data—considering that studies with positive results are more likely to be published than those with null or negative outcomes (publication bias)—it emerged that the benefits of nudging were often more limited than initially believed. For example, changing default settings for organ donations did not always produce the actual increase in transplants that one might have expected. In many cases, the intervention targeted symptoms rather than addressing the structural causes hindering more effective decisions. At this stage, the discussion moves beyond the clash between models of logical rationality and systematic errors, acknowledging that the human mind is not a perfect probability-calculating machine, but rather an adaptive system capable of using intelligent shortcuts when needed. This view highlights the difference between rigid, abstract models and the complexity of real life, where uncertainty is not resolved simply with calculations but requires flexibility, experience, and an understanding of the context. Conclusions Overall, reflecting on the debate among logical rationality, cognitive biases, and ecological heuristics offers a strategically significant perspective for managers and entrepreneurs who navigate dynamic and unpredictable global markets every day. Compared to the current state of the art—where advanced data analysis tools seek to simulate omniscience and optimality—ecological rationality suggests focusing on flexibility and adaptability rather than the pursuit of mathematical perfection. Using simple heuristics is not a return to the past, but a recognition of the necessity to operate under conditions where not all variables are known and where speed of action is decisive. This stands in contrast to approaches that emphasize paternalistic control of behavior through invisible nudges, predictive technologies, or static incentive structures. Entrepreneurs and managers, facing the challenges of digitalization and economic complexity, can draw on the insights of ecological rationality to combine quantitative analyses with robust intuitions, develop more effective training systems, and leverage the tacit knowledge of their teams. In a world without definitive certainties, true foresight is not about trying to tame uncertainty with unassailable formulas, but about learning to navigate it with flexible and comprehensible strategies. Attending context, continuous learning, and selecting cognitive tools suited to the contingent reality offers fertile ground for the development of more aware, pragmatic, and complexity-sensitive corporate policies and decision-making. Taken together, these reflections can represent a mature approach to future challenges, standing apart from simplistic dogmas and opening the way to a deeper understanding of rational action under real conditions. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/Rationality--Uncertainty--and-Decisions-in-the-Contemporary-World-e2sd74o Source: https://www.cambridge.org/core/journals/behavioural-public-policy/article/rationality-wars-a-personal-reflection/3D2EA145E5C7EFEE9EE7A910325EE6AC
- Razionalità, incertezza e decisioni nel mondo contemporaneo
“The rationality wars: a personal reflection” di Gerd Gigerenzer (MaxPlanck Institute for Human Development, Berlin, Germany), con riferimenti ai lavori di Daniel Kahneman e Amos Tversky, coinvolge istituzioni accademiche di spicco nel campo delle scienze sociali e psicologiche. La ricerca esplora la tensione tra modelli di razionalità logica e programmi alternativi basati su euristiche e contesti ambientali. La tematica generale riguarda la natura della razionalità umana nell’economia, nella psicologia cognitiva e nelle politiche pubbliche, analizzando critiche, interpretazioni normative, effetti cognitivi e prospettive su incertezza e complessità decisionale. Razionalità, incertezza e decisioni nel mondo contemporaneo La razionalità logica tra Guerra Fredda e modelli economici Negli anni della Guerra Fredda si radicò l’idea della razionalità logica come fondamento per interpretare e prescrivere il comportamento umano in situazioni strategiche. L’economia e le scienze sociali adottarono come base il paradigma della massimizzazione dell’utilità attesa, arricchito da assiomi di coerenza interna e dal ricorso alla probabilità bayesiana come strumento per gestire decisioni lineari e contesti noti. Tale impostazione era motivata dal desiderio di preservare l’ordine mondiale dal rischio di disastri bellici, introducendo l’ambizione di prevedere e vincolare le scelte di governanti e popolazioni. Tuttavia, si trattava di una visione circoscritta a piccoli mondi ben definiti e facilmente calcolabili. Quando la comunità scientifica, a partire dagli anni ’70, mise alla prova questa impostazione, emergendo con l’idea che le persone commettessero sistematicamente errori, le critiche furono interpretate come prova di una limitata capacità umana di ragionare secondo logica. Un famoso studio del 1974 sull’uso di euristiche e bias nelle decisioni ottenne oltre 15000 citazioni, oscurando lavori precedenti che dipingevano individui come buoni intuitivi statistici e segnalando come il dibattito venisse influenzato dal richiamo mediatico. Questo fenomeno portò a vedere la razionalità logica non come semplice modello utile, ma come norma universale, ignorando i limiti di validità nelle situazioni di incertezza. Diventava necessario interrogarsi su ciò che rende una strategia decisionale davvero efficace quando non si dispone di tutti i dati né di tempo infinito per calcolare soluzioni ottimali. Dall’irrazionalità apparente alle ricerche sui bias cognitivi L’emergere del cosiddetto programma euristiche-e-biass spinse a considerare le deviazioni dagli standard logici come segnali di difetti cognitivi intrinseci. La rappresentazione della mente umana come entità fallace, incline a giudizi distorti, favorì l’idea di una psicologia dell’irrazionalità. Alcune istituzioni, governi e imprese colsero l’occasione per giustificare interventi paternalistici, sostenendo che la collettività non sapesse gestire correttamente rischi, probabilità e scelte complesse. Tuttavia, l’indagine critica di questi risultati ha mostrato l’assenza di prove concrete che colleghino tali bias a reali conseguenze materiali e danni tangibili. Non vi è evidenza, ad esempio, che la violazione di assiomi logici produca sistematicamente perdite economiche o peggiori esiti di salute. Inoltre, molte presunte distorsioni non si replicarono in contesti sperimentali differenti. Un’accurata analisi rivela che i partecipanti ai test iniziali spesso non avevano l’opportunità di imparare dall’esperienza o di interagire con problemi reali, ma venivano esposti a quesiti ipotetici di breve durata. Questo cambio di metodologia, dall’esplorazione attiva della casualità al semplice questionario astratto, finì con il generare impressioni distorte. Ciò dimostra come la cosiddetta irrazionalità dipenda dal contesto, dal tempo concesso e dalla natura delle informazioni. Quando si concede spazio per comprendere frequenze, insiemi di casi e situazioni in cui sperimentare i dati, la capacità umana di ragionare in modo coerente migliora sensibilmente. La razionalità ecologica e le euristiche come strumenti adattivi Emersero in seguito correnti che respinsero l’interpretazione di queste deviazioni come fallacie, proponendo la nozione di razionalità ecologica. Tale approccio, ispirato anche alle idee di Herbert Simon, valorizza l’uso di euristiche semplici, definite in modo algoritmico, per prendere decisioni funzionali in ambienti incerti e complessi. Queste strategie non aspirano all’ottimalità astratta, ma puntano a risultati sufficientemente buoni in tempi ridotti, sfruttando la struttura stessa del contesto. La riduzione dell’informazione e la semplificazione non sono difetti, bensì strumenti per adattarsi a problemi concreti. In alcune circostanze, l’eccesso di dati e il ricorso a modelli matematici complessi non migliorano la precisione, mentre euristiche semplici possono risultare più robuste. L’analisi ha mostrato che in ambienti non stabili, con cambiamenti repentini, le strategie ecologiche riescono talvolta a superare algoritmi sofisticati. L’adozione di tecniche come gli alberi decisionali veloci e parsimoniosi, applicati in finanza o in ambito sanitario, ne è un esempio concreto. In un caso di formazione destinata a medici, bastò un’ora di istruzione in forma intuitiva per rendere comprensibile a quasi tutti la corretta interpretazione di risultati diagnostici precedentemente fraintesi. Ciò indica che l’istruzione mirata e la consapevolezza del contesto ambientale possono colmare il divario tra ideali logici e pratiche decisionali realistiche. Dilemmi pratici tra nudging, contesto reale e superamento dei modelli astratti Nel corso del dibattito, alcuni studiosi proposero di migliorare le scelte delle persone intervenendo sull’“architettura delle decisioni”, ossia organizzando il contesto in modo da favorire comportamenti considerati migliori. Questa idea, nota come nudging, mirava a ottenere risultati positivi semplicemente modificando opzioni predefinite o suggerendo scelte ritenute più vantaggiose. Tuttavia, quando si sono rivisti i dati tenendo conto che gli studi con risultati positivi tendono a essere pubblicati più di quelli con risultati nulli o negativi (fenomeno noto come bias di pubblicazione), è emerso che i benefici del nudging erano in molti casi più limitati di quanto si pensasse inizialmente. Ad esempio, modificare le impostazioni standard per le donazioni di organi non sempre ha prodotto l’aumento effettivo dei trapianti che ci si sarebbe aspettati. In molti casi, si agiva sui sintomi del problema, senza affrontare le cause strutturali che ostacolano decisioni più efficaci. A questo punto la discussione va oltre lo scontro tra modelli di razionalità logica ed errori sistematici, riconoscendo che il pensiero umano non è una macchina perfetta per calcolare probabilità, ma un sistema adattivo in grado di usare scorciatoie intelligenti quando serve. Questa visione evidenzia quanto i modelli rigidi e astratti differiscano dalla complessità della vita reale, dove l’incertezza non si risolve semplicemente con calcoli, ma richiede flessibilità, esperienza e comprensione del contesto. Conclusioni Nel complesso, la riflessione sul dibattito tra razionalità logica, bias cognitivi ed euristiche ecologiche offre una prospettiva strategica di grande importanza per dirigenti e imprenditori che si confrontano quotidianamente con mercati globali dinamici e imprevedibili. Rispetto allo stato dell’arte, nel quale gli strumenti avanzati di analisi dei dati cercano di simulare l’onniscienza e l’ottimalità, le proposte di razionalità ecologica suggeriscono di concentrarsi sulla flessibilità e sull’adattabilità, piuttosto che sulla pretesa di perfezione matematica. L’uso di euristiche semplici non è un ritorno al passato, ma un riconoscimento della necessità di operare in condizioni nelle quali non tutte le variabili sono note e dove la rapidità dell’azione risulta decisiva. Questo contrasta con approcci che enfatizzano il controllo paternalistico del comportamento attraverso spinte invisibili, tecnologie di predizione o strutture di incentivo statiche. Gli imprenditori e i manager, di fronte alle sfide della digitalizzazione e della complessità economica, possono trovare nelle riflessioni sulla razionalità ecologica una guida per combinare analisi quantitative con intuizioni robuste, creare sistemi di formazione più efficaci e valorizzare la conoscenza tacita del proprio team. In un mondo senza certezze definitive, la vera lungimiranza non è cercare di domare l’incertezza con formule inattaccabili, ma imparare a navigarla con strategie duttili e comprensibili. L’attenzione per il contesto, per l’apprendimento continuo e per la selezione di strumenti cognitivi adatti alla realtà contingente offre un nuovo terreno di sviluppo per politiche aziendali e decisionali più consapevoli, pragmatiche e attente alla complessità. L’insieme di queste riflessioni può rappresentare un approccio maturo alle sfide future, differenziandosi dai semplici dogmi e aprendosi a una comprensione più profonda dell’agire razionale in condizioni reali. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/Razionalit--incertezza-e-decisioni-nel-mondo-contemporaneo-e2sd5q8 Fonte: https://www.cambridge.org/core/journals/behavioural-public-policy/article/rationality-wars-a-personal-reflection/3D2EA145E5C7EFEE9EE7A910325EE6AC
- PROCESSBENCH: Toward a Scalable Evaluation of Mathematical Reasoning Errors in AI
The study “PROCESSBENCH: Identifying Process Errors in Mathematical Reasoning” by Chujie Zheng, Zhenru Zhang, Beichen Zhang, involving QwenTeam, Alibaba Inc., presents a new methodology to measure the ability of language models to detect the first logical or mathematical error within step-by-step solutions. The core of the research concerns verifying the reliability of models when analyzing complex problems, often at the level of mathematical competitions, to prevent superficial assessments and improve automated oversight processes. PROCESSBENCH: Toward a Scalable Evaluation of Mathematical Reasoning Errors in AI Objectives of PROCESSBENCH Analyzing errors in reasoning processes requires careful attention. A language model’s ability to accurately identify the first error in a sequence of mathematical deductions is a key element to ensuring robust and scalable quality control. The PROCESSBENCH initiative is developed around a structured set of extensive test cases, including a collection of no fewer than 3,400 exercises focused on problems of varying complexity, even up to the Olympic level. The innovative aspect lies in analyzing not only the correctness of the final result, but the entire logical path followed. When a model confronts a mathematical problem, the validity of the conclusion can be misleading, especially if conceptual, algebraic, or logical errors emerge during the process. This diagnostic approach makes it possible to pinpoint intermediate steps where an apparently coherent structure masks inaccuracy. A key aspect is the difference between models trained only to reward the correctness of the final answer and models capable of authentic process evaluation. In the former case, training may lead to solutions that are formally correct in their conclusion but internally conceal unverified steps. This discrepancy becomes more evident as the problem’s difficulty increases for example, in tackling more complex texts, such as competition-level problems, even large-scale models may provide correct final answers but based on uncertain or fallacious intermediate deductions. PROCESSBENCH, on the other hand, forces a step-by-step analysis, seeking the exact point at which the error becomes apparent, if it exists. The creation of this corpus required careful human annotation. Multiple experts meticulously examined each solution, comparing it with reference answers known for their correctness. It is not just about identifying a wrong calculation: the error criteria include incorrect use of definitions, logical steps not supported by adequate evidence, omission of critical conditions, and unjustified assumptions. The result of this work is a highly challenging benchmark, where each test reflects a nontrivial situation: models must uncover the first moment when the logical chain loses solidity, distinguishing between a genuine error and a simple stylistic deviation or an insignificant detail. It is precisely this change of perspective that makes PROCESSBENCH a critical tool. Instead of focusing on the binary judgment of a final answer—correct or incorrect—granular understanding of the reasoning is required. Models must act as “critics” of their own solutions or those generated by other models, analyzing each deduction line by line. The approach is not limited to evaluating a model in isolation but is tested on solutions generated by a wide range of different systems, ensuring stylistic and complexity diversity that makes the benchmark robust. By increasing the difficulty of the questions, from school level up to the Olympiad level, it is tested whether models can still identify, step by step, the logical substance of each move. In this way, PROCESSBENCH not only evaluates but also enables those who develop or use language models to understand in which areas they fail, providing insights for improving oversight or training. A strategic use of the tool could consist in integrating step-by-step analyses as a control routine before using a model’s conclusions on an industrial scale, where invisible yet present errors in the chain of deduction can lead to unwise decisions. Moreover, such a methodology could provide entrepreneurs and managers with a method to evaluate the reliability of automated reasoning technology with solid criteria before implementing it on critical problems, allowing a better understanding of the boundaries and limits of today’s available artificial intelligence tools. Comparative Analysis Between Process Reward Models and Critic Models In comparing types of models, a clear distinction emerges. On the one hand, there are the so-called process reward models (PRMs), that is, systems designed to evaluate the correctness of intermediate steps based on the likelihood of ultimately reaching a correct answer. On the other, there are the so-called critic models, i.e., general language models with greater flexibility when appropriately instructed with specific prompts to perform critical step-by-step analysis. Comparing the two strategies on PROCESSBENCH makes it clear that PRMs, although built with the intent to oversee the logical thread of solutions, encounter increasing difficulties as the problem complexity grows. To better frame the phenomenon, it is useful to consider some numerical results. Analyses have shown that, on this dataset, PRMs struggle to maintain stable performance when moving up through levels, for example from elementary problems to those at the Olympiad level. By contrast, critic models demonstrate greater versatility. They are not natively optimized for this task, but if guided appropriately, they prove capable of identifying errors more effectively than most PRMs. This might suggest that training models exclusively to pursue the correct final answer is not sufficient to teach them to recognize errors along the way. A significant case emerges from the comparison between open-source and proprietary models. Considering a model specialized in internal reasoning, such as o1-mini, one observes a high-level performance in identifying errors, with an F1 of 87.9%, an indicator of excellent ability in precisely pinpointing the weak spot in the logical process. This result, superior to that of GPT-4o (61.9%), suggests that o1-mini’s specialization in step-by-step reasoning favors greater sensitivity to internal errors compared to a more generic and broader model like GPT-4o. On the open-source side, QwQ-32B-Preview, with an F1 of 71.5%, comes close to the performance of the best proprietary systems, placing itself halfway between the less effective models and the highest standards. This highlights tangible progress for open models, which prove competitive with GPT-4o, offering accessible solutions with solid reliability. However, even the best open-source models do not reach the power of the more specialized top-performing proprietary ones, showing that there is room for further improvement, especially in the approach to identifying reasoning errors. It is not just a matter of model size, but of how it has been trained and what oversight strategies have been employed to make it skilled in critical internal analysis of solution processes. A PRM trained on a large human-annotated corpus, such as Qwen2.5-Math-7B-PRM800K, levels off at average (F1) values around 56.5%, but struggles to scale when the problem complexity becomes too high. This suggests that PRM generalization is limited and that relying on outcome-based metrics has led to training that is not optimal for managing the real verification of every single step. From this analysis, a picture emerges in which critic models—those that act as reviewers—more promptly catch errors as difficulty increases. Their ability to reflect on the text, thanks to cleverly constructed prompts, allows an accurate analysis of internal coherence, the validity of the definitions used, and the correctness of the mathematical steps. They do not stop at the final result but ask themselves if the path taken to reach it makes sense, if every step is grounded, if the reasoning does not assume something not stated or not proven. One detail to note is how, through PROCESSBENCH, it was also observed that on very difficult problems, with advanced-level questions, even seemingly correct solutions can actually hide path errors. This reveals a new perspective on how complex it is to evaluate a language model trying to solve high-level mathematical problems: the result is not a guarantee of the rigor with which it was constructed. Hence the importance of this benchmark, which pushes us to consider linearity, solidity, and the absence of logical flaws as central elements in evaluating the quality of an automated reasoning system. In a context where companies may rely on systems capable of quickly formulating solutions to technical, legal, or market issues, monitoring the process is an essential prerequisite to avoid that apparently rational decisions are based on erroneous assumptions. Reflections and Consequences for the Future of Scalable Oversight In the landscape outlined by the introduction of PROCESSBENCH, it becomes increasingly clear how far we are from solving the issue of internal reasoning control in language models. The current state of the art appears as a work in progress, where available verification tools have not yet achieved sufficient maturity to guarantee full reliability. The crucial point emerging from the evidence is that limiting the evaluation of a system to the correctness of the final answer does not provide exhaustive information about the solidity of the logical path used to generate it. A model that produces a numerically exact outcome may have reached that result by mere coincidence, using poorly founded shortcuts or exploiting regularities in the training data distribution. Without a true internal inspection, appearances deceive correct results do not imply rigorous thought processes. PROCESSBENCH, designed to probe the quality of step-by-step reasoning, shows how a superficial analysis is insufficient. Experience, in fact, suggests that generic models, if properly guided, can assume the role of critics of their own results, bringing to light logical errors not immediately evident. This outcome is enlightening for developers, as it demonstrates that training a model solely on the probability of arriving at the correct solution is not the most effective strategy to confer self-checking capability and to identify errors along the way. Similarly, for those evaluating the implementation of such tools in decision-making or entrepreneurial environments, the need emerges to consider the internal reliability of the process. The stakes increase with the complexity of the problems and the critical level of the economic or strategic decisions to be made. In practical terms, a manager deciding to introduce an automatic reasoning system into their company should not limit themselves to asking whether the machine produces formally correct answers but should also wonder about the robustness of the path leading to those answers. PROCESSBENCH allows precisely this verification, addressing complex problems annotated with human care. Such a comparison prompts a rethinking of training methodologies. Increasing the model’s size or feeding it more data is not enough: it must be shaped so that it knows how to recognize when a logical link breaks down. The difference between a model that works blindly, while generating “correct” answers, and one that possesses internal awareness of its mistakes, is substantial. In the first case, there is a risk of placing excessive trust in a result not truly founded. In the second, any error is intercepted at the outset, highlighting the need to correct the path before deciding or acting accordingly. Technologies currently on the market often limit themselves to offering external, a posteriori checks based on heuristics or small samples. These solutions do not achieve the analytical depth necessary to truly understand the internal coherence of the reasoning, especially when the problem’s complexity grows. PROCESSBENCH, thanks to its vast set of cases and high-quality human annotations, provides a more solid testing base. For a company, not accepting vendor promises at face value means adopting a rigorous and independent benchmark capable of testing the internal validity of simulated cognitive processes. This perspective becomes valuable in not mistaking an apparent support—merely based on correct final results—for a truly reliable foundation upon which to build long-term strategies. Ultimately, if the goal is to employ automatic reasoning models in complex and variable scenarios, the development path is still long. The role of PROCESSBENCH in this historical phase is to show clearly how much remains to be done, without indulging in easy enthusiasm. Thanks to this resource, it becomes possible to understand where models fail, how to improve training practices, and which priorities to set to make oversight truly scalable. Those who must make operational or strategic decisions thus have the opportunity to make more informed choices, assessing the actual solidity of automated inference mechanisms. In a world where the use of artificial intelligence systems increasingly touches many areas, the difference between relying on a model with a merely final approach and employing a tool that scrutinizes the entire reasoning chain could determine the success or failure of a strategy. PROCESSBENCH, in the final analysis, does not merely propose a method of evaluation, but opens the way to a culture of internal analysis, monitoring, and continuous verification, pushing businesses, researchers, and developers toward more ambitious and secure goals. Conclusions In a landscape where language models’ analytical capacity tends to be taken for granted, PROCESSBENCH offers a tangible reference for redefining standards of quality and transparency in automated inference processes. The most interesting aspect is not only the improved identification of errors but also the potential evolution of the entire technological ecosystem: developers are no longer forced to chase performance on simplified tests, but are instead invited to tackle more realistic challenges, with complex problems and solutions annotated by experts. This competitive pressure could stimulate the birth of new architectures and training techniques oriented toward deep understanding of reasoning, not just replicating statistical patterns. From a strategic point of view, the existence of an advanced benchmark like PROCESSBENCH allows companies to make more informed choices about which tools to adopt. It is no longer about selecting the solution that gives the “right” answer most often, but the one that ensures logical solidity throughout the entire decision-making process. This shift in perspective, from the final result to the internal process, lays the groundwork for a kind of “cognitive governance” of technology: managers will be able to evaluate not only the effectiveness of a model but also its structural reliability. Consequently, the most forward-thinking enterprises, instead of blindly adopting systems known for high performance on standard tests, might opt for models that are slightly less precise on the single data point but more robust and transparent in their logic. If encouraged, this dynamic can help curb dependency on opaque proprietary solutions, while valuing the open-source approach when it guarantees, if not absolute primacy, at least a readily inspectable argumentative solidity. In the long run, the availability of complex benchmarks like PROCESSBENCH could also influence the relationship between research, market, and regulations. Regulatory bodies, for example, could refer to such tools to define minimum standards of “cognitive responsibility” for automatic reasoning technologies. Respecting qualitative thresholds tied to the internal correctness of reasoning, rather than the sole accuracy of the final result, could become a requirement for large-scale adoption in critical sectors such as finance, healthcare, or advanced logistics. In summary, PROCESSBENCH not only raises the bar for evaluating the quality of mathematical reasoning in language models but also sows the seeds for broader transformation. This includes the emergence of a more mature market, more aware companies when making technological choices, and future regulation more attentive to the very nature of automated reasoning. The evolution will not be immediate or painless, but the benchmark provides a new reference point: not just a simple test, but an impetus to rethink research, innovation, governance, and the entire ecosystem of artificial intelligence applied to complex reasoning. Podcast: https://creators.spotify.com/pod/show/andrea-viliotti/episodes/PROCESSBENCH-Toward-a-Scalable-Evaluation-of-Mathematical-Reasoning-Errors-in-AI-e2scrd4 Source: https://arxiv.org/abs/2412.06559









