“CNEL - Rapporto 2024. Demografia e Forza Lavoro”, coordinato in particolare da Alessandro Rosina, Renato Brunetta e Alessandra De Rose, coinvolge il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro con l’apporto di statistici, demografi ed economisti. L’analisi affronta il rapporto fra demografia e forza lavoro, evidenziando la capacità competitiva delle imprese, evidenziando il rischio di un marcato calo della popolazione in età lavorativa, l’impatto dell’invecchiamento e la potenziale contrazione del bacino di competenze giovanili. Emergono spunti preziosi per imprenditori e dirigenti aziendali riguardo le possibili leve su donne, giovani e senior, senza trascurare il ruolo dell’immigrazione e l’influenza delle nuove tecnologie.
Demografia e forza lavoro: trasformazioni e prospettive
Le basi quantitative del “Rapporto 2024. Demografia e forza lavoro” mettono in luce una trasformazione mai sperimentata su scala così ampia nella storia recente. Da tempo, in Italia, il tasso di fecondità è al di sotto del livello di rimpiazzo generazionale, posizionandosi in modo persistente sotto 1,5 figli per donna. Gli scenari demografici contenuti nell’analisi suggeriscono che la fascia 15-64 anni, che era di circa 39 milioni di individui fino al 2013, continuerà a ridursi: nelle proiezioni mediane dell’ISTAT al 2050, la popolazione in età potenzialmente attiva scenderebbe stabilmente sotto i 40 milioni di unità. Questa tendenza, che mostra valori particolarmente critici nel Mezzogiorno, genera timori su larga scala: se cala la base dei lavoratori, si rischia di mettere a repentaglio la tenuta del sistema produttivo e dei servizi sociali, con pressioni elevate sulla sostenibilità della spesa pubblica.
È importante evidenziare che aumenta anche l’età media della forza lavoro, per il passaggio in età più avanzate di generazioni storicamente più consistenti (i baby boomers). Questo trend introduce nuovi dilemmi per le imprese: le competenze delle generazioni più mature, pur essendo consolidate, devono aggiornarsi a tecnologie digitali e alla cosiddetta trasformazione guidata dall’intelligenza artificiale. Cresce inoltre la necessità di ripensare l’organizzazione di imprese e uffici pubblici, così da agevolare la permanenza al lavoro di chi ha esperienza ma necessita di modalità più flessibili, ad esempio con lo smart working o con politiche di Age management. Non si tratta semplicemente di compensare la carenza di nuove leve, ma di trasformare l’invecchiamento della popolazione in un’opportunità per ricalibrare processi interni, ridurre sprechi di competenze e garantire continuità formativa.
Una delle problematiche più critiche emerse nel Rapporto è la progressiva diminuzione delle coorti giovanili, ridotte da circa 8,5 milioni intorno al 2004 a valori stabilmente inferiori ai 7 milioni, secondo i dati più aggiornati. Molti giovani che potrebbero dare linfa innovativa al tessuto produttivo scelgono, in percentuali significative, di emigrare all’estero, soprattutto quando detengono titoli di studio elevati. La fuga di competenze appare un nodo strutturale che il Rapporto lega anche alla bassa attrattività di interi territori, privi di adeguate prospettive occupazionali o di strutture educative di alto livello.
Allo stesso tempo, l’arrivo di nuovi immigrati non riesce a compensare il deficit di nati. Se da un lato, negli ultimi due decenni, la forza lavoro straniera ha fornito un contributo fondamentale in settori come l’agricoltura, la cura alle persone anziane e le costruzioni, dall’altro tale componente risulta spesso inserita in posizioni professionalmente dequalificate, con elevati tassi di sovra istruzione. La presenza straniera appare dunque un elemento imprescindibile per tamponare il calo di natalità e per sostenere una parte dei fabbisogni professionali più urgenti. Tuttavia, il Rapporto insiste sull’idea che immigrazione e investimenti sul capitale umano interno devono procedere di pari passo, senza illusioni di soluzioni immediate.
In parallelo, la popolazione in età matura (55 anni e oltre) vede aumentare il tasso di occupazione, anche in virtù delle riforme pensionistiche succedutesi dal primo decennio del secolo in avanti. Questa crescita, pur essendo necessaria per contenere gli squilibri pensionistici, richiede di ripensare modelli organizzativi che finora hanno privilegiato una certa rigidità. Servono ambienti di lavoro più inclusivi, in grado di capitalizzare la continuità di carriera del lavoratore senior e di porre le basi per un ricambio graduale e qualitativo: ciò implica processi di formazione continua, scambio di esperienze fra generazioni e maggior attenzione alla salute nelle fasi avanzate di vita lavorativa.
Il Rapporto pone l’accento anche sulle disparità territoriali, con il Mezzogiorno che mostra i livelli più bassi di occupazione femminile e giovanile in Europa. Nei prossimi quindici-vent’anni, queste divergenze potrebbero acuirsi, considerando che l’indebolimento delle coorti under 35 appare particolarmente acuto nel Sud. Per invertire tale tendenza, si evidenzia la necessità di un quadro di politiche integrato fra imprese, istituzioni locali e sistema formativo, così da rispondere alla diminuzione del potenziale lavorativo con un aumento sensibile della qualità dell’offerta di lavoro e dei servizi ai cittadini.
Giovani, donne e demografia: pilastri della crescita economica
La questione giovanile e il contributo delle donne al mercato del lavoro costituiscono i nodi fondamentali analizzati dagli studiosi coinvolti. Il Rapporto documenta come i livelli di occupazione femminile in Italia siano tra i più bassi in Europa, segnando un divario di quasi 20 punti percentuali rispetto alla media UE, e superando i 25 punti in alcune regioni meridionali. Questa condizione persiste nonostante il conseguimento di risultati formativi spesso superiori da parte delle donne, soprattutto nelle generazioni più giovani, a testimonianza di uno squilibrio che non dipende unicamente da ragioni culturali, ma anche da dinamiche nel mercato del lavoro. Difatti, la dimensione della cura, la carenza di servizi come gli asili nido e la scarsità del tempo pieno scolastico, specialmente nelle aree interne o nel Sud, inducono molte donne a ritirarsi dal lavoro retribuito o a ricoprire posizioni sotto-qualificate.
Il Rapporto evidenzia che aumentare l’occupazione femminile non serve solo a garantire parità di opportunità, ma offre vantaggi tangibili all’intero sistema economico. Ogni punto percentuale di crescita dell’occupazione femminile alimenta, secondo diverse ricerche citate, un incremento del PIL e un gettito contributivo che aiuta la sostenibilità futura del welfare. Emerge, inoltre, un effetto di riequilibrio demografico: dove le donne possono contare su un lavoro stabile e su adeguati strumenti di conciliazione, la natalità tende a stabilizzarsi su valori più elevati. Questo riduce il rischio di quel circolo vizioso in cui la difficoltà di trovare e mantenere un’occupazione solida spinge le coppie a rinviare le scelte di genitorialità.
Ancora più marcato il tema dell’occupazione giovanile, che soffre di un acceso disallineamento tra domanda e offerta di competenze. Il fenomeno dei NEET, particolarmente alto in alcune regioni del Sud, indica la quota di giovani che non studia, non segue corsi di formazione e non lavora. In alcune regioni meridionali questa percentuale supera il 30%, con punte drammatiche che coinvolgono fasce più deboli sul piano socioeconomico. Il Rapporto propone che i soggetti pubblici e le imprese incentivino la formazione continua, l’istruzione tecnica e professionale (ITS) e l’alternanza scuola-lavoro, superando l’uso meramente formale di alcuni tirocini poco utili. Secondo gli autori, un sistema duale, in cui a partire dai 16 anni sia possibile coniugare studio e apprendistato, offrirebbe ai giovani la prospettiva di sperimentare competenze più spendibili e, allo stesso tempo, di stimolare la produttività delle aziende.
Il Rapporto mette inoltre in guardia da una cronica incapacità di valorizzare il capitale umano dei giovani una volta assunti: molte PMI e non poche organizzazioni pubbliche, soffrono la mancanza di percorsi strutturati di formazione on-the-job e un orientamento carente all’innovazione. Questa debolezza diventa ancora più critica quando si tratta di intercettare i talenti digitali. La sfida del reclutamento in settori tecnologicamente avanzati non può prescindere dalla disponibilità di risorse scolarizzate, ma occorre anche saper offrire prospettive di carriera e contesti di lavoro dinamici, capaci di rendere l’Italia attraente come sede lavorativa. L’alternativa, in caso di inerzia, sarà un ulteriore potenziamento dei flussi migratori di giovani formati che scelgono di lasciare il paese, con grave danno al tessuto produttivo.
Una linea di intervento suggerita è quella di rafforzare l’orientamento già nei livelli finali della scuola secondaria, favorendo la conoscenza dei trend occupazionali e delle professioni emergenti. Nel Rapporto, gli economisti evidenziano come la più ampia adozione di sistemi digitali e di intelligenza artificiale stia generando nuove opportunità di lavoro in ruoli impensabili pochi anni fa, dal machine learning specialist ai consulenti di “ethics by design”. Tuttavia, mancano figure pronte e le aziende spesso lamentano difficoltà a colmare queste posizioni: la carenza di percorsi professionalizzanti e l’inefficacia di politiche attive del lavoro si uniscono alla modesta capacità di immaginare forme di apprendistato duale. Il Rapporto ipotizza che recuperare tale ritardo significhi anche incentivare tirocini di qualità o stage universitari, integrati da processi di tutoraggio che favoriscano, in modo trasparente e non burocratico, l’ingresso effettivo nel mondo lavorativo.
Un ulteriore elemento di riflessione è il legame fra precarietà e bassa natalità. I contributi di alcuni studiosi nel Rapporto suggeriscono che la stabilità lavorativa dei giovani rappresenta un prerequisito per una ripresa dell’indice di fecondità, che non risiede solo in interventi economici frammentari, ma anche in un mercato del lavoro meno ostile. Dove si ha una maggiore occupazione under 35, come nei Paesi del nord Europa, si riscontrano anche tassi di fecondità prossimi al livello di sostituzione generazionale. La chiave, come sottolineato, è una sinergia fra imprese e politiche pubbliche, che superi la logica delle misure di emergenza e consideri i giovani una vera risorsa da far crescere, sviluppando un contesto più inclusivo dal punto di vista culturale e organizzativo.
Immigrazione, integrazione e forza lavoro: sfide e opportunità
Il Rapporto dedica ampio spazio al ruolo dell’immigrazione, tracciando un quadro chiaro: l’apporto dei cittadini stranieri risulta decisivo per diversi segmenti di mercato. Nel 2023, la popolazione straniera in età lavorativa si è attestata su valori pari a circa il 10% degli occupati complessivi, con una tendenza a recuperare i livelli pre-pandemici in tempi più rapidi di quanto ipotizzato. L’ISTAT ha valutato che, se si considerano anche i lavoratori naturalizzati, la quota del contributo straniero al mercato del lavoro risulta superiore alle stime basate sulla sola cittadinanza straniera. Questa presenza straniera, però, trova spazio soprattutto in mansioni a bassa qualifica, come nell’edilizia, in attività di assistenza famigliare, nella ristorazione e, in misura rilevante, in servizi sottoposti a intermittenza stagionale.
I dati rivelano inoltre che una percentuale non trascurabile di immigrati possiede livelli di istruzione superiori, eppure si trova impiegata in professioni non qualificate: il 60,2% dei laureati di origine non UE occupa posizioni che non richiedono un titolo universitario, contro il 19,3% degli italiani. Questo squilibrio, noto come overqualification, rappresenta uno spreco di risorse umane e influenza negativamente le strategie aziendali di lungo periodo, impedendo alle imprese di valorizzare pienamente le competenze dei lavoratori stranieri. L’analisi evidenzia la presenza di ostacoli burocratici consolidati, difficoltà nel riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero e pratiche discriminatorie informali che riducono le possibilità di crescita professionale.
Lo scenario che emerge è complesso, poiché se l’immigrazione rappresenta una risposta parziale alla riduzione della componente giovanile, non appare un meccanismo capace di agire da solo in modo risolutivo. Anzi, il Rapporto sottolinea come gli immigrati stessi, se non adeguatamente integrati, possano contribuire a formare sacche di lavoro sommerso e a subire condizioni contrattuali precarie, favorendo spinte al ribasso delle tutele. In parallelo, esiste l’urgenza di varare politiche migratorie lungimiranti, che prevedano canali di ingresso regolati e un sistema di integrazione efficace. Ciò ridurrebbe, tra l’altro, la prevalenza di situazioni di irregolarità, garantendo un migliore incontro fra domanda e offerta di lavoro. Rafforzando gli strumenti di collocamento e formazione per chi proviene dall’estero, si otterrebbe un doppio vantaggio: disporre di manodopera in settori dove si fatica a trovare personale e, al contempo, aumentare il livello complessivo di professionalità, contrastando la trappola del “lavoro etnico” in settori a bassa remunerazione.
Il Rapporto insiste sull’importanza di modulare gli ingressi in base alle esigenze reali del tessuto produttivo e sulla necessità di agire a monte, ad esempio con percorsi di formazione pre-partenza nei paesi di origine, collegati a quote specifiche di ingresso. Per le mansioni di cura e assistenza, il testo evidenzia che le proiezioni di invecchiamento faranno crescere la domanda di personale specializzato, in particolare se i servizi assistenziali pubblici non verranno potenziati. Se non si provvede a un maggiore riconoscimento delle professionalità straniere, gli autori temono che la tendenza verso la marginalità lavorativa per gli immigrati prosegua, vanificando ogni potenziale vantaggio di un’immigrazione più qualificata.
Si ribadisce anche che, per le imprese, l’innesto di forza lavoro immigrata dovrebbe inserirsi in una cornice di strategie integrate, che puntino a coniugare riorganizzazione interna, digitalizzazione e miglioramenti dell’attrattività verso i talenti stranieri. Contrariamente a quanto spesso si pensa, le ricerche citate stimano che i lavoratori stranieri, nel loro complesso, generino un valore aggiunto intorno al 9% del PIL italiano, cifra non trascurabile se si pensa alle prospettive di indebolimento dei contributi pensionistici nei prossimi decenni. Tuttavia, occorre superare la visione di tale apporto come semplice soluzione tampone al calo demografico e aumentare l’integrazione con politiche di sviluppo territoriale, formazione linguistica e riconoscimento delle competenze. In assenza di questi passi, il rischio è continuare con un meccanismo “al ribasso”, in cui gli immigrati finiscono intrappolati in settori a bassa produttività, generando tensioni sociali e spreco di potenziale.
Senior e forza lavoro: opportunità di una vita lavorativa lunga
La prospettiva di una lunga vita attiva è un ulteriore aspetto cruciale: con la longevità in espansione, chi oggi supera i 55 anni potrà potenzialmente rimanere attivo, se supportato, ben oltre i 65 o 70 anni. Il Rapporto dedica approfondimenti all’idea che l’invecchiamento della forza lavoro, anziché essere solo un costo da fronteggiare, possa divenire occasione di riconfigurazione del lavoro, a patto che si adottino tecniche di Age management volte a conservare e trasmettere il sapere dei lavoratori più anziani. In Italia, il tasso di occupazione degli over 55 è cresciuto dal 47% del 2007 a valori superiori al 64% nel 2024. Questo ha attenuato le perdite generate dal crollo delle fasce giovanili, mantenendo il numero complessivo di occupati sostanzialmente stabile fino alla pandemia. Ora, però, si ritiene necessario aumentare la qualità del lavoro in questa fase di vita, onde evitare che l’età avanzata, associata a eventuali problemi di salute o all’obsolescenza di competenze, si traduca in bassa produttività.
All’interno del Rapporto si sottolinea che occorrono forme di aggiornamento professionale continue anche per i lavoratori maturi, con incentivi alla formazione e meccanismi premianti che rendano vantaggioso per le imprese investire nei senior. Un ruolo vitale potrebbe essere svolto dalle nuove tecnologie, incluse le soluzioni di intelligenza artificiale che consentirebbero di automatizzare mansioni ripetitive, alleggerendo il carico delle persone meno giovani. Il passaggio a un’organizzazione più flessibile, che inserisca i lavoratori senior in attività di tutoraggio e trasferimento di competenze, crea un duplice beneficio: da un lato, i giovani apprendono più rapidamente i processi-chiave, dall’altro i senior evitano mansioni eccessivamente faticose in termini fisici o cognitivi, mantenendo un senso di utilità professionale.
L’allungamento della vita lavorativa, rimarcano i curatori del Rapporto, non è esente da rischi. La spinta verso l’uscita posticipata può aggravare le differenze, perché chi svolge occupazioni manuali e usuranti fatica a proseguire in età molto avanzata. Il Rapporto evidenzia come i fattori di discriminazione in base all’età persistano in diversi ambienti lavorativi, con la tendenza, in alcune grandi aziende, a privilegiare competenze più giovani. Questo diventa deleterio sia per il singolo lavoratore più anziano, sia per l’impresa che perde la possibilità di custodire l’esperienza. Emergono, allora, soluzioni contrattuali intermedie (part-time agevolati, formule di staffetta generazionale) e la necessità di un approccio basato su misure personalizzate, che tengano conto delle condizioni di salute e dei desideri individuali.
Un grande capitolo del Rapporto riguarda anche i costi del mancato adeguamento. L’Italia rischia un rapporto di uno a uno fra occupati e pensionati entro la metà del secolo, stando a diverse stime internazionali, con evidenti ripercussioni sulla spesa previdenziale. Diventa, pertanto, prioritario investire in politiche attive per l’età matura: la ragioneria generale dello Stato prospetta che, ipotizzando un solido recupero di partecipazione femminile e una crescita dell’impiego dei senior, si potrebbe limitare l’erosione del numero complessivo di occupati. Il Rapporto, nell’esplorare scenari futuri, propone esercizi di simulazione in cui un riallineamento dei tassi di occupazione italiani a quelli medi europei, unito a un saldo migratorio leggermente più elevato, potrebbe consentire al paese di mantenere attorno ai 24 milioni di occupati entro il 2040, evitando un crollo che alcune proiezioni più pessimistiche considerano inevitabile.
In più occasioni viene messo in risalto che la famiglia stessa trarrebbe giovamento dalla presenza di una popolazione anziana più attiva e in salute. Questo significa, però, ripensare la dimensione del welfare, andando oltre l’idea che l’anzianità lavorativa debba coincidere con un pensionamento immediato. Se in molte nazioni del nord Europa le riforme sono già andate in direzione di un graduale ritiro dal lavoro, in Italia permangono concezioni più rigide, spesso aggravate dal timore che i senior, restando più a lungo occupati, privino gli under 35 di spazi professionali. Il Rapporto critica questa falsa contrapposizione, sottolineando che un uso più produttivo della componente senior genera, a lungo termine, maggiore sviluppo e posti di lavoro aggiuntivi. Siamo di fronte, in altre parole, a un passaggio da una visione conflittuale tra generazioni a una collaborazione che può rendere più efficiente la combinazione di esperienza e competenze innovative.
Nuove tecnologie e demografia: impatti sul futuro del lavoro
Le tecnologie digitali sono un fattore di rilievo trasversale per comprendere l’evoluzione di demografia e forza lavoro. L’adozione di sistemi di automazione e intelligenza artificiale promette, in teoria, di compensare almeno in parte la contrazione della manodopera. Alcuni scenari ottimistici prevedono che l’Italia possa aumentare la produttività ricorrendo a robotica industriale e analisi algoritmiche, e colmare lacune di personale in specifici compiti ripetitivi. Tuttavia, alcuni economisti citati nel Rapporto mettono in guardia dai limiti strutturali del tessuto imprenditoriale italiano: molte piccole e medie imprese non possiedono capitali e know-how sufficienti per acquisire e sfruttare a pieno strumenti digitali di ultima generazione. La dimensione ridotta, la bassa spesa in ricerca e sviluppo e il limitato numero di addetti qualificati rischiano di rallentare il salto tecnologico rispetto ad altri paesi.
L’intelligenza artificiale cosiddetta generativa (capace di creare testi, immagini, prototipi) porta alcuni studiosi a ritenere che l’automazione coinvolga mansioni non routine e processi cognitivi, ampliando il potenziale di sostituzione anche in settori avanzati. Ma la vera sfida, secondo quanto ripreso dal Rapporto, consiste nell’integrare le nuove tecnologie con il capitale umano esistente, ridisegnando i processi produttivi e le competenze richieste. Non è credibile un futuro in cui le macchine rimpiazzino del tutto il lavoro umano, men che meno in un contesto di dejuvenation così marcato. Piuttosto, si potranno assistere a intensificazioni dei ritmi e a una ricollocazione dei lavoratori in mansioni che richiedono interazione, creatività o coordinamento. Per evitare effetti negativi, come lo stress da eccessiva pressione o la polarizzazione di ruoli iper-specializzati, il Rapporto indica la necessità di un quadro regolativo e di governance, a livello sia nazionale sia europeo.
Le politiche industriali e le relazioni sindacali occupano, perciò, uno spazio significativo nello studio. Viene ribadito che la disponibilità e l’accesso a infrastrutture digitali e cloud di proprietà europea costituiscono un fattore strategico per mantenere l’autonomia delle nostre imprese rispetto alle grandi piattaforme mondiali. Senza investimenti massicci in questo ambito, l’innovazione rischia di avvenire in modo frammentario, concentrando quote di mercato nelle mani di pochi giganti stranieri. In parallelo, si suggerisce di rafforzare gli ammortizzatori sociali e i percorsi di riqualificazione professionale dei lavoratori in settori esposti a possibili ondate di ridimensionamento occupazionale, dalla logistica alla produzione industriale.
Sono citate, inoltre, esperienze di alcune grandi imprese e filiere produttive che, adottando soluzioni di IA per la previsione della domanda o la manutenzione predittiva di macchinari, non hanno ridotto drasticamente il personale, bensì ridefinito ruoli e compiti. Ciò conferma la visione secondo cui la tecnologia va a sottrarre alcune mansioni, ma ne crea di nuove, purché l’ecosistema territoriale supporti la formazione e la convergenza di competenze. La tesi del Rapporto è che l’Italia, se affronta con ritardo e disorganizzazione la trasformazione digitale, rischia di vedere prevalere esiti di intensificazione del lavoro e perdita di controllo da parte delle PMI. Se invece adotterà un approccio coeso, potrà destinare l’automazione e le soluzioni digitali a migliorare la qualità del lavoro e ad alleggerire i compiti più faticosi, potenziando allo stesso tempo il valore aggiunto delle figure professionali.
L’intelligenza artificiale ha potenzialità di incidere sull’innovazione dei servizi pubblici: la semplificazione delle procedure amministrative e il monitoraggio dei fabbisogni sociali rappresentano ambiti dove l’Italia sconta inefficienze ataviche. Qualora le Pubbliche Amministrazioni introducano soluzioni automatiche di smistamento e interpretazione dati, si potrebbero redistribuire alcune mansioni più meccaniche, liberando risorse per servizi personalizzati, come quelli di cura alla persona e assistenza medico-sociale. Tutto, però, dipende dalla disponibilità di competenze interne alla PA e dall’esistenza di un clima di fiducia e controllo etico, che eviti utilizzi impropri di algoritmi e set di dati sensibili.
Ne consegue che la tecnologia, da sola, non risolve il problema demografico e la rarefazione della popolazione attiva, ma può facilitare la ricerca di soluzioni virtuose se inquadrata in un contesto di politiche industriali e sociali ben coordinate. Il Rapporto non presenta una ricetta univoca, ma sottolinea l’urgenza di non rimandare interventi su formazione, attrazione dei talenti, digitalizzazione e sostegno alla famiglia. L’inserimento delle donne e dei giovani in percorsi di qualità, insieme a una rivalutazione della professionalità dei senior, si intreccia con l’adozione di strumenti digitali. È questa sovrapposizione di fattori che, in uno scenario futuro, potrebbe scongiurare il pericolo di un declino occupazionale irreversibile.
Conclusioni
Alla luce dei risultati esposti, il “Rapporto 2024. Demografia e Forza Lavoro” del CNEL solleva interrogativi di fondo su come preservare la competitività e la coesione sociale in Italia, nel pieno di una fase di trasformazione delle strutture demografiche e di profonda innovazione tecnologica. Non si tratta di elencare dati preoccupanti sulle nascite o su quante persone escono ogni anno dal mercato del lavoro, ma di prendere atto che la sopravvivenza del sistema produttivo e la tenuta del welfare dipendono dal riequilibrio tra generazioni e da un uso più razionale delle risorse umane.
A uno sguardo più profondo, appare centrale il tema delle disparità territoriali. Se le regioni più dinamiche possono attrarre forza lavoro straniera e offrire opportunità ai giovani, altre aree, in particolare del Mezzogiorno, rischiano di avvitarsi fra declino demografico e mancanza di prospettive. Per imprenditori e dirigenti, ciò implica valutazioni strategiche su dove investire e come reperire le competenze necessarie, a fronte di una progressiva difficoltà nel coinvolgere i lavoratori under 35. Alcune tecnologie di automazione già sopperiscono alla ridotta disponibilità di manodopera in specifici settori, ma non c’è ancora un modello consolidato di governance dell’innovazione.
Le conseguenze strategiche per le imprese sono notevoli: accelerare sulla digitalizzazione, ammodernare i contratti di lavoro per favorire la presenza femminile e per integrare gradualmente i nuovi ingressi di personale immigrato, potenziare la formazione continua a tutti i livelli d’età. È proprio in questa direzione che si manifesta l’esigenza di coordinare le politiche industriali con quelle sociali. In parallelo, lo stato dell’arte nelle tecnologie similari già presenti in altri Paesi mostra che l’Italia deve recuperare competitività, altrimenti l’accelerazione degli automatismi digitali rischierà di essere subita, senza generare benefici economici e sociali duraturi.
Non si scorge, infine, una singola direttrice di intervento capace di invertire la tendenza: incentivare la natalità aiuta sul lungo periodo, ma richiede di intervenire anche su servizi alle famiglie e redditi stabili. Sostenere l’ingresso di personale immigrato può tamponare i vuoti professionali, a patto di integrare i lavoratori in settori innovativi e con piani di carriera adeguati. Puntare sulle competenze dei senior serve, ma va accompagnato da riorganizzazioni interne. Serve un sistema coerente che sappia guardare ai giovani e alle donne come colonne portanti di uno sviluppo sostenibile, calibrando i passi per evitare disuguaglianze intergenerazionali o territoriali. Da questo Rapporto emerge la necessità di un confronto costante tra il mondo politico, le istituzioni produttive e le realtà sociali, con la consapevolezza che la combinazione di demografia e innovazione è la sfida decisiva per garantire futuro e benessere al Paese.
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