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Paure sull'intelligenza artificiale: differenze globali in 20 paesi

Immagine del redattore: Andrea ViliottiAndrea Viliotti

Fears About Artificial Intelligence Across 20 Countries and Six Domains of Application” è il titolo della ricerca a cura di Mengchen Dong, Jane Rebecca Conway e Jean-François Bonnefon, supportata dal Max Planck Institute for Human Development e dall’Institute for Advanced Study in Toulouse, University of Toulouse Capitole. Lo studio analizza le paure verso l’Intelligenza Artificiale in sei professioni chiave (medici, giudici, manager, operatori socioassistenziali, figure religiose e giornalisti) e mette in luce aspetti preziosi per imprenditori, dirigenti aziendali e tecnici, mostrando come differenze culturali e percezioni psicologiche incidano sull’accettazione di tecnologie avanzate. Emergono dati su 10.000 partecipanti provenienti da 20 Paesi, utili a comprendere preferenze e preoccupazioni in modo approfondito e strategicamente rilevante.

Paure sull'intelligenza artificiale

Paure sull'intelligenza artificiale: influenze culturali e variabilità

Le paure nei confronti dell’Intelligenza Artificiale si spostano costantemente da un’occupazione all’altra man mano che gli algoritmi sono impiegati in contesti tradizionalmente umani. La ricerca mostra come l’opinione pubblica di 20 Paesi – compresi, fra gli altri, Stati Uniti, Cina, India, Italia, Giappone e Turchia – non sia uniforme nell’interpretare e nell’accettare la presenza di sistemi automatici in ruoli ad alta responsabilità. Gli studiosi hanno analizzato i livelli di timore rilevando significative variazioni nazionali: in alcuni luoghi, l’uso dell’AI nei tribunali appare più preoccupante rispetto all’impiego negli ospedali, mentre altrove le reazioni cambiano radicalmente.


Un elemento chiave è lo scenario culturale, che plasma narrazioni e sensibilità storiche riguardo alla tecnologia. In India e negli Stati Uniti, per esempio, i dati mostrano punte più elevate di timore, con valori medi superiori a 64 su una scala da 0 a 100. Invece in Turchia, Giappone e Cina questi livelli scendono sotto 53, segnalando un rapporto più distaccato ma non per forza più tranquillo, perché la bassa percezione di minaccia potrebbe derivare da fattori come l’abitudine a robot sociali o la fiducia in politiche governative che regolamentano le attività algoritmiche.


Il fulcro dell’analisi si concentra sul fatto che gran parte di queste differenze non è imputabile solo al singolo individuo ma ai valori condivisi in una società. Il documento conferma infatti che la variabilità fra Paesi è di gran lunga superiore a quella che emergerebbe casualmente. Esempi significativi mostrano come le paure sull'Intelligenza Artificiale nei contesti occidentali siano spesso legate al modo in cui un giudice-AI potrebbe gestire equità e trasparenza, mentre in nazioni asiatiche emerge una fiducia maggiore, con minore enfasi sugli errori commessi dai sistemi automatici.


Per un imprenditore o un dirigente aziendale, questo si traduce nella necessità di comprendere che l’accoglienza di un sistema di Intelligenza Artificiale per compiti direttivi non è la stessa in ogni parte del pianeta. Un software di gestione del personale adottato negli Stati Uniti potrebbe richiedere una progettazione e una comunicazione diverse da quelle di un sistema destinato al mercato cinese. Il livello di familiarità con macchine dall’aspetto umanoide o la storia mediatica di tali strumenti incidono sulle aspettative. Per i tecnici, è ancora più importante capire come integrare l’AI in ruoli dai risvolti emotivi o sociali.


Un ulteriore elemento che emerge è l’ampiezza del campione: 10.000 persone, distribuite equamente (500 per ogni Paese). Questo assicura un’analisi rappresentativa e definisce un quadro globale nel quale i timori non si concentrano solo su un profilo professionale. È la costante spinta dell’AI in ruoli come il medico o il giudice a sollecitare un confronto serrato fra tradizione e innovazione, fra rassicurazioni politiche e scetticismo individuale. Qualcuno si sente minacciato dall’idea che una macchina possa emettere una sentenza definitiva, mentre altri temono diagnosi non empatiche se l’algoritmo sostituisce il medico di fiducia. Per il giornalismo, la prospettiva di un’AI che scrive articoli e filtra notizie suscita ansie legate alla manipolazione dell’informazione, ma anche curiosità sulle sue potenzialità in termini di tempestività e completezza.


Paure sull'intelligenza artificiale: aspetti psicologici e professionali

Un passaggio fondamentale della ricerca esplora quali tratti psicologici e umani gli intervistati ritengono necessari in ogni mestiere analizzato. Vengono evidenziate otto caratteristiche: empatia, sincerità, tolleranza, equità, competenza, determinazione, intelligenza e capacità di immaginazione. I dati mostrano che, a seconda della professione, alcune di queste virtù diventano prioritarie. Un medico, per esempio, è considerato bisognoso di sincera empatia e notevole capacità di problem solving; un giudice deve mostrarsi imparziale e competente; un manager deve sapersi destreggiare in modo intelligente e deciso; un operatore socioassistenziale dovrebbe spiccare per empatica e tolleranza.


In diversi Paesi occidentali, la figura del giudice è associata a un alto requisito di equità, mentre in altre aree geografiche potrebbe contare maggiormente la competenza tecnica. Allo stesso modo, i cittadini di alcune nazioni asiatiche sembrano attribuire meno rilievo all’immaginazione per il ruolo di un predicatore o ministro religioso, ma si focalizzano di più sull’idea di sincerità e integrità morale. Su questo piano, lo scostamento culturale incide in misura rilevante: la ricerca testimonia come la variabilità tra i Paesi sia nettamente superiore rispetto alla fisiologica differenza fra singoli individui.


Subentra così un fattore cruciale: l’AI viene percepita come dotata di potenziali umani, ma con intensità variabile. Nel documento, i partecipanti hanno espresso giudizi sulla capacità delle macchine di mostrarsi calde, sincere, tolleranti o competenti, e ogni valutazione è inserita in una scala da 0 a 100. L’immaginario comune assegna a un algoritmo doti di calcolo e intelligenza elevate, ma spesso lo giudica carente in creatività, empatia e persino correttezza morale. Questi risultati diventano particolarmente evidenti quando si chiede ai partecipanti di paragonare i requisiti ideali di un determinato ruolo con le potenzialità che l’AI, al massimo delle sue prestazioni, sarebbe in grado di offrire.


Il tema centrale dello studio riguarda le paure sull'Intelligenza Artificiale, legate alla corrispondenza tra ciò che si attende da un professionista umano e le capacità attribuite all’AI. Ai fini manageriali e imprenditoriali, è importante notare che, se la mansione in questione richiede soprattutto intelligenza analitica e costanza, molti non vedono grossi ostacoli a un sostituto artificiale. Se invece occorrono sensibilità, intuito o spirito d’iniziativa, emerge una barriera psicologica che può generare diffidenza. Un sistema di gestione del personale, per esempio, risulta interessante se considerato migliore di un essere umano nel ridurre favoritismi e discriminazioni, ma desta ansie sulla capacità di mostrare empatia per i lavoratori in difficoltà.


Nella ricerca, il dibattito sui robot preti (o simili figure religiose) evidenzia un punto affascinante: chi vive la fede come esperienza personale cerca autenticità e carisma, e un robot ben addestrato può risultare meno credibile. Questo vale anche per altri mestieri ad alto tasso di interazione umana, come quello del medico specialista che deve immedesimarsi nel disagio del paziente. Gli esempi confermano come i timori non siano uniformi, ma varino ampiamente in base alla cultura, alle abitudini sociali e alla natura stessa dell’occupazione.


Il “Match” come strumento di comprensione: la formula che lega requisiti e paure

La ricerca non si limita a un’indagine statistica descrittiva. Nel documento è presentato un modello matematico che punta a spiegare la connessione tra le paure e il grado di somiglianza tra i requisiti di un lavoro e le doti attribuite all’AI. Per ogni occupazione, si valuta se l’algoritmo dispone o no di ciascuna delle otto caratteristiche fondamentali (empatia, sincerità, tolleranza, equità, competenza, determinazione, intelligenza, capacità di immaginazione). Il calcolo di quante di queste caratteristiche coincidono prende il nome di “Match”: se un individuo crede che l’AI possa soddisfare, per esempio, quattro di questi tratti, allora il valore di corrispondenza è 4.


Dal punto di vista statistico, gli autori hanno rappresentato la relazione come:Fear = Match + (1|country/participant)dove “Fear” indica il livello di timore per un’AI in un determinato ruolo professionale, “Match” è il conteggio delle caratteristiche psicologiche coperte dalla macchina e “(1|country/participant)” segnala la presenza di variazioni casuali dovute alle differenze nazionali e individuali. I risultati mostrano che più il Match è alto, più il timore si riduce di alcuni punti sulla scala da 0 a 100. L’analisi rivela inoltre che tale correlazione è valida a livello individuale e ancor più marcata a livello di nazione.


Se un individuo giudica l’IA molto competente e piuttosto intelligente, ma la ritiene carente in empatia e rettitudine morale, si configura un Match soltanto parziale. In tal caso, la diffidenza deriva dalla percezione che la macchina non soddisfi appieno i requisiti richiesti, specialmente in occupazioni con una forte dimensione umana come quella del giudice. In diversi contesti, quest’ultimo ruolo è associato a simbolismi radicati e a standard etici considerati imprescindibili, rendendo ancora più complesso affidarlo a un sistema automatizzato.


Per gli imprenditori, queste osservazioni suggeriscono che le preoccupazioni legate all'Intelligenza Artificiale possono essere attenuate migliorando la percezione di allineamento psicologico tra il sistema automatizzato e il compito da svolgere. Nel caso di software manageriali, se nella comunità di provenienza dei dipendenti competenza e determinazione sono considerate qualità fondamentali, mentre la gentilezza risulta meno rilevante, l'AI potrebbe essere accolta con maggiore favore. Al contrario, in comunità dove ci si aspetta empatia da un responsabile aziendale, l'adozione di un algoritmo potrebbe trovare maggiori ostacoli.


L’aspetto forse più interessante è che la formula, pur essendo semplice, riesce a spiegare circa il 40% delle variazioni nazionali quando si osservano i dati aggregati. I punteggi di Paesi come Cina, Giappone o Turchia, che mostrano un timore più basso, talvolta non seguono la previsione in maniera lineare, indicando che in quelle aree entrano in gioco fattori storici o di costume che attenuano la percezione di rischio. Ma a livello complessivo emerge la tendenza: se una cultura assegna a un ruolo professionale requisiti che ritiene l’AI non in grado di soddisfare, il timore si alza.


Paure sull'intelligenza artificiale: analisi su sei professioni

I risultati concreti si concentrano su sei professioni emblematiche. Per i giudici, il timore ha registrato i livelli più alti in quasi tutte le 20 nazioni. Questo suggerisce che, indipendentemente dal contesto, molti ritengono imprescindibili requisiti come la capacità di capire i contesti umani e l’equità interpretativa. Alcuni intervistati temono che un sistema, seppur avanzato, possa riprodurre pregiudizi o non cogliere le sfumature emotive di un caso legale. Per un dirigente pubblico che valutasse l’introduzione di un algoritmo giudiziario, ciò evidenzia il bisogno di garantire trasparenza e soprattutto di comunicare ai cittadini l’effettiva solidità etica e metodologica del sistema.


Per quanto riguarda i medici, in più di un Paese si è notato un atteggiamento contrastante: molte persone ammettono la superiorità di un’AI in termini di rapidità diagnostica, ma lamentano la scarsa rassicurazione emotiva. Ne scaturisce un timore misto di perdere il contatto umano: la diagnosi algoritmica appare efficiente, ma priva di empatia. Gli imprenditori del settore sanitario potrebbero superare tale ostacolo associando l’AI al lavoro dei professionisti, senza esautorare il medico dal suo ruolo di supporto umano.


Nei manager, l’idea di un’AI in grado di assegnare compiti e valutare il personale incontra reazioni diverse. Alcuni considerano l’algoritmo un supervisore imparziale, utile a ridurre ingiustizie e favoritismi. Altri faticano ad accettare che una macchina possa gestire i conflitti interni all’azienda o motivare i dipendenti. Dove la cultura aziendale premia la competenza e i risultati, l’AI manageriale è meno spaventosa; dove si valorizza la dimensione relazionale con i dipendenti, la resistenza aumenta.


Per gli operatori socioassistenziali, sembra emergere la convinzione che empatica e tolleranza siano irrinunciabili. Un software capace di analizzare esigenze specifiche potrebbe migliorare la programmazione degli interventi domiciliari, ma la cura delle persone fragili è spesso associata alla necessità di sorrisi, comprensione e creatività. La difficoltà per un’azienda che eroghi servizi assistenziali sta nel far percepire all’utente che, dietro l’uso dell’AI, restano sempre individui empatici e pronti all’ascolto.


Le figure religiose rappresentano un altro settore delicato: in vari paesi asiatici si percepisce meno timore nel vedere un robot affiancare un ministro di culto, forse perché esiste una tradizione di rappresentazioni tecnologiche in spazi spirituali, o perché si tende a leggere l’automazione come un supporto, non come un sostituto. In contesti diversi, però, ci si chiede se una macchina possa “avere fede” o trasmettere valori morali e spirituali. Per un’istituzione religiosa, la sfida è spiegare come l’AI possa offrire servizi informativi, rimanendo lontana da questioni di autenticità di fede.


Infine, la percezione dei giornalisti risulta mediamente meno drammatica. Il timore è più contenuto, sebbene si tema la manipolazione delle informazioni o la diffusione di notizie generate senza verifica umana. Il settore media e comunicazione vede già tecnologie che redigono articoli finanziari o previsioni meteo, ma in molti Paesi si pensa che il giornalismo di qualità debba mantenere un tocco di investigazione e creatività. Per chi dirige un gruppo editoriale, può essere utile equilibrare automazione della cronaca e apporto critico dei redattori, rassicurando i lettori sulla genuinità delle notizie.


Accettazione dell’AI: strategie globali e sfide sulle paure

I dati suggeriscono che l’accettazione dell’AI non è semplicemente collegata alla diffusione della tecnologia o alla sua efficienza, ma alla percezione che essa risponda a esigenze psicologiche e culturali proprie di ogni ruolo professionale. Molti timori non derivano da una scarsa conoscenza degli algoritmi, bensì dalla sensazione che la macchina non sia abbastanza “umana” da occupare spazi relazionali: ci si aspetta infatti empatia, intuito e capacità di interpretare sfumature.


Per un’azienda che voglia investire in applicazioni AI, il consiglio è di lavorare fin dalle prime fasi di progetto su un’analisi dei requisiti psicologici percepiti come fondamentali. Se, per esempio, in un determinato Paese il contatto diretto è un valore irrinunciabile, l’impiego di un chatbot per il servizio clienti deve essere accompagnato da un sistema ibrido, dove l’algoritmo non sostituisce del tutto l’operatore umano. Un esempio concreto: alcune compagnie hanno affiancato sistemi automatici di risposta veloce a un supervisore umano presente in chat, riuscendo a ridurre i tempi di attesa e a offrire una rassicurante presenza reale quando necessario.


Il modello di corrispondenza Match mostra la sua utilità nell’evidenziare che l’attenzione di imprenditori e dirigenti deve dirigersi non solo alla robustezza tecnica, ma anche all’aderenza psicologica: se una tecnologia appare priva di tratti ritenuti cruciali dal pubblico, genera più timori. Questi timori possono essere parzialmente mitigati con adeguate spiegazioni, trasparenza sugli algoritmi e scelte di design che non enfatizzino aspetti percepiti come inaffidabili (ad esempio, un robot con aspetto vagamente umanoide potrebbe creare un’inquietudine maggiore se non è chiaro quanto “sensibile” sia davvero).


A livello planetario, le politiche di regolamentazione possono assumere un ruolo chiave per dare linee guida e rassicurare i cittadini. Lo studio evidenzia tuttavia che normative di tipo “taglia unica”, basate su criteri occidentali, potrebbero risultare inefficaci o addirittura controproducenti altrove. Per esempio, in contesti dove l’AI è già integrata in molti aspetti quotidiani, come certi servizi pubblici asiatici, le paure si pongono in modo diverso. Un manager che opera in scenari di internazionalizzazione farebbe bene a valutare come “localizzare” la propria AI: dal linguaggio dell’interfaccia fino ai riferimenti ai valori etici condivisi.


Sul fronte tecnico, i ricercatori suggeriscono di lavorare a modelli di AI in grado di dare una parvenza più sfaccettata di umanità: simulare l’empatia, giustificare le scelte con trasparenza o “raccontare” il processo decisionale. Nell’indagine si cita anche il rischio di un ricorso scorretto all’anthropomorphizing, ossia fingere che l’algoritmo abbia pensieri e sentimenti più di quanto non avvenga realmente. È auspicabile, invece, una comunicazione onesta, con cui informare l’utenza sui limiti e le potenzialità effettive della tecnologia, in modo da smorzare aspettative irrealistiche e dare un quadro concreto di responsabilità umana nell’interazione.


Conclusioni

La ricerca “Fears About Artificial Intelligence Across 20 Countries and Six Domains of Application” offre una prospettiva poliedrica sulle paure legate all’Intelligenza Artificiale e su come le società reagiscono alla sua introduzione in ruoli ritenuti finora esclusivamente umani. I numeri mostrano che gli interrogativi e le ansie non si concentrano solo sull’aspetto tecnologico, ma soprattutto sull’inadeguatezza percepita della macchina nel soddisfare requisiti psicologici come sincerità, empatia e immaginazione. Tale incontro-scontro fra aspettative umane e potenzialità dei sistemi automatici varia radicalmente da una cultura all’altra e da un’occupazione all’altra, svelando una complessità che non può essere ridotta a semplici stereotipi.


Per dirigenti e imprenditori, la questione assume un risvolto strategico. Le ricadute pratiche includono la necessità di affrontare limiti e obblighi normativi, per esempio nel settore sanitario o nell’ambito del customer care. In molte realtà si stanno consolidando tecnologie capaci di compiere mansioni un tempo esclusivamente svolte da esseri umani: alcuni ospedali implementano algoritmi diagnostici altamente precisi, mentre diversi tribunali sperimentano assistenti virtuali per l’analisi di precedenti legali. È cruciale capire che ogni contesto nazionale sviluppa una propria idea di fiducia nella macchina, di efficacia e di etica.


Sul piano strategico, emerge la necessità di definire standard e pratiche che tengano conto della cultura specifica e della natura del lavoro da automatizzare. La prospettiva di un singolo Paese, anche se avanzatissimo in termini di ricerca e innovazione, non può essere imposta come regola universale, pena un’ulteriore crescita della sfiducia globale nei confronti dell’AI. Un imprenditore che opera su scala internazionale potrebbe trarre vantaggio da un’indagine preliminare dei requisiti psicologici locali e dalla valutazione di quanto l’AI riesca a colmarli o meno. L’obiettivo è raggiungere un equilibrio che, senza promettere fantasie tecniche o simulazioni emotive non realistiche, offra soluzioni rispettose di valori e sensibilità differenti.


La vera forza di questa indagine sta nell’aver mostrato come il timore verso l’AI in ruoli delicati non sia dettato solo da ignoranza o fobie generalizzate, ma da considerazioni profonde sugli attributi umani che vengono percepiti come fondamentali. Le tecnologie che vi si avvicinano producono meno resistenze, mentre quelle che ne sono molto distanti generano allarme. Confrontando i risultati con le tecnologie già attive nei vari paesi e con lo stato dell’arte della robotica sociale, si vede che l’adozione avviene in modo più o meno morbido a seconda della distanza tra le aspettative sociali e le reali capacità dell’AI. Per i manager di oggi, significa aprire un tavolo di discussione su come integrare l’intelligenza artificiale in maniera etica, funzionale e in linea con il sentire della comunità dove verrà introdotta, evitando promesse ingannevoli ma valorizzando le reali potenzialità del progresso.


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