Dal mondo “piatto” alla competizione: cosa ci ha insegnato il decennio 2015–2025
- Andrea Viliotti

- 3 giorni fa
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In dieci anni sono cambiate le regole: dalle catene globali ottimizzate al “just in case”, dal credito quasi gratis alla lotta all’inflazione, dalla tecnologia come leva di crescita alla tecnologia come terreno di sicurezza nazionale. Il 2026–2030 non sarà un ritorno alla normalità: sarà una fase di scelte, con traiettorie diverse a seconda di come evolveranno energia, guerre, debito e intelligenza artificiale.

LO SPARTIACQUE: QUANDO L’ECCEZIONE DIVENTA SISTEMA
Il periodo 2015–2025 non è stato un semplice accumulo di crisi. È stato un cambio di regime: l’idea implicita di una globalizzazione “neutra”, guidata solo da costi e vantaggi comparati, ha lasciato spazio a un mondo in cui sicurezza economica, controllo tecnologico e resilienza sociale diventano variabili decisive. Non perché l’economia abbia smesso di contare, ma perché il potere – politico, industriale, cognitivo – ha ripreso a pesare sulla traiettoria dei mercati.
Tre dinamiche si sono sovrapposte. Primo: gli shock reali – pandemia e guerra – che hanno reso visibile la fragilità delle interdipendenze. Secondo: il ritorno della politica industriale, in USA, Europa e Asia, con l’obiettivo di accorciare filiere e proteggere tecnologie critiche. Terzo: l’ambiente informativo, dove piattaforme e algoritmi amplificano polarizzazione e sfiducia, e dove l’IA generativa riduce il costo di produrre contenuti, compresi quelli ostili.
2015–2025: DALLA GLOBALIZZAZIONE ALLA SICUREZZA ECONOMICA
Il clima entra stabilmente nell’economia politica. Sul piano politico, dalla Brexit al ritorno dei dazi, l’idea di un mercato globale “automatico” ha iniziato a incrinarsi. L’accordo di Parigi (2015) e le politiche successive hanno spinto investimenti e regolazione: la transizione energetica non è più un capitolo “ambientale”, ma un pezzo di competitività e sicurezza (anche perché chi controlla materie prime, reti e standard controlla una parte del futuro industriale).
La globalizzazione si scopre vulnerabile. Il blocco di Suez del marzo 2021, la carenza di semiconduttori e l’impennata dei costi logistici hanno fatto da stress test per filiere disegnate per l’efficienza, non per la continuità. Il tema “resilienza” entra nei consigli di amministrazione: scorte, doppie fonti, nearshoring, risk management geopolitico.
Il Covid segna la svolta. L’11 marzo 2020 l’OMS ha definito il Covid-19 una pandemia: da quel momento produzione, lavoro e consumi sono diventati terreno di policy sperimentali e di grandi interventi pubblici. L’effetto collaterale, in Europa come negli Stati Uniti, è stato l’aumento del debito e una maggiore dipendenza dalle decisioni delle banche centrali.
La guerra torna al centro dell’Europa. L’invasione russa dell’Ucraina (febbraio 2022) ha aperto una fase di sanzioni, riarmo e ripensamento energetico. Il picco dell’inflazione e dei prezzi dell’energia è stato la fotografia di questa nuova fragilità: negli Stati Uniti l’inflazione CPI ha toccato il 9,1% su base annua nel giugno 2022; nell’area euro l’inflazione ha raggiunto il 10,6% nell’ottobre 2022. Nello stesso anno, il gas europeo (TTF) è arrivato a un record di circa 306 euro per MWh (agosto 2022). Da lì è partito anche il ritorno del costo del denaro: la stretta monetaria ha cambiato mutui, investimenti e finanza pubblica.
QUATTRO POLI A CONFRONTO: POSTURE E VINCOLI
USA. Gli Stati Uniti restano il centro della finanza globale e dell’ecosistema tecnologico. Ma la postura è cambiata: più politica industriale, più controllo sulle tecnologie critiche, più attenzione alla sicurezza delle catene del valore. L’America può contare su un mercato dei capitali profondo, su università e imprese che attraggono talenti e, sul fronte energetico, su una vulnerabilità inferiore rispetto all’Europa. Il limite è interno: polarizzazione e cicli politici più conflittuali rendono meno scontata la continuità strategica, con effetti diretti su commercio, regole e alleanze.
Europa/UE. L’Unione è un gigante regolatorio e un mercato che fa standard. Ha dimostrato capacità di risposta nelle emergenze, ma paga tre vincoli: crescita potenziale modesta, frammentazione decisionale e dipendenza energetica storica. Prima della guerra, la Russia forniva circa il 45% del gas importato dall’UE: ridurre quella dipendenza è stato possibile, ma a costi elevati e con nuove esposizioni. Sul versante tecnologico, l’Europa deve evitare un falso dilemma: regole senza industria sono impotenti; industria senza regole è fragile. La sfida è usare il mercato unico per fare scala, investire su energia, digitale e difesa, e trasformare regolazione e concorrenza in un vantaggio competitivo, non in un freno.
Cina. Pechino combina scala manifatturiera, capacità di pianificazione e un mercato interno enorme. Entra però nel 2026–2030 con sfide più dure: demografia, settore immobiliare, produttività, e un ambiente tecnologico esterno più ostile (controlli export, restrizioni su chip e know-how). La strategia è evidente: più autosufficienza tecnologica, più influenza su materie prime e filiere, più presenza nei mercati emergenti. La biforcazione è politica ed economica: competizione gestita – con interdipendenze selettive – oppure spirale di restrizioni e ritorsioni che comprime crescita e innovazione su entrambi i lati.
Russia. Mosca pesa soprattutto come potenza militare ed energetica. La guerra ha accelerato una riconversione verso un’economia più “bellica”, con maggiore dipendenza da export di materie prime e da relazioni selettive con partner extra-occidentali. Nel breve questo può sostenere capacità di pressione; nel medio aumenta il costo tecnologico e demografico e riduce le opzioni di modernizzazione. Per l’Europa significa un rischio strutturale: non una crisi episodica, ma un vicino instabile per anni.
ITALIA: VULNERABILITÀ REALI, VANTAGGI SOTTOVALUTATI
Per l’Italia il punto non è scegliere “con chi stare” – la collocazione euro-atlantica è data – ma come stare dentro una competizione che si gioca su energia, filiere, tecnologia e coesione sociale. Il Paese ha fragilità note: alta intensità energetica di una parte della manifattura; demografia sfavorevole; spazio fiscale limitato. Un indicatore sintetico è il debito: a fine terzo trimestre 2024 il debito pubblico italiano era pari al 136,3% del PIL.
Ma ci sono anche vantaggi competitivi spesso sottovalutati: capacità manifatturiera e di design, specializzazione in nicchie ad alto valore, filiere flessibili, una base di PMI che – quando investe – sa adattarsi in fretta. E poi la posizione: se il Mediterraneo torna centrale per energia, dati e traffici, l’Italia può guadagnare ruolo, a condizione di sbloccare colli di bottiglia cronici (autorizzazioni, reti, logistica, competenze).
2026–2030: GRADIENTI E BIFORCAZIONI (SENZA PROFEZIE)
Ci sono tendenze robuste, ma non lineari. Regionalizzazione competitiva delle filiere. Continuerà lo spostamento da “costo minimo” a “rischio gestibile”: più fornitori, più scorte critiche, più nearshoring e friendshoring. La biforcazione sta nei costi: se la frammentazione diventa rigida, l’inflazione strutturale rischia di restare più alta; se invece si costruiscono standard comuni tra alleati, la resilienza può crescere senza perdere troppo in produttività.
Energia come politica industriale. La transizione prosegue, ma la variabile decisiva è la rete: elettrificazione, accumuli, capacità autorizzativa e investimenti. Il punto di svolta sarà la velocità con cui l’Europa ridurrà la volatilità dei prezzi, perché da lì discendono competitività e consenso.
IA come moltiplicatore (di produttività e di rischio). L’IA non è “un software”: è un modo diverso di organizzare decisioni, processi e lavoro. La biforcazione riguarda governance e competenze: senza dati affidabili, sicurezza e formazione, l’IA resta una demo; con policy interne chiare, può comprimere tempi, migliorare qualità e aprire nuovi servizi.
Riarmo e sicurezza estesa. La spesa militare globale ha raggiunto 2.718 miliardi di dollari nel 2024: il tema non è solo “quanto”, ma “come” (capacità industriale, dual use, cyber). La biforcazione è politica: deterrenza stabile o escalation intermittente, con effetti immediati sui bilanci pubblici.
Fiducia nell’informazione. Più la società è digitale, più la fiducia diventa un fattore economico: influenza consumi, investimenti, reputazione e stabilità istituzionale. Per imprese e istituzioni il rischio non è solo operativo: è anche narrativo, perché la percezione può anticipare o amplificare lo shock.
CINQUE MOSSE “NO-REGRET” PER I PROSSIMI 24–36 MESI
Per imprese e decisori pubblici, il compito è trasformare l’incertezza in un portafoglio di scelte robuste.
Primo: mappare le dipendenze critiche (energia, componenti, software, dati) e costruire piani di continuità con alternative realistiche, non “piani perfetti”.
Secondo: investire in efficienza energetica e contratti di lungo periodo (anche rinnovabili) come leva industriale, non come compliance.
Terzo: costruire capacità su dati e IA con tre ingredienti semplici: casi d’uso misurabili, formazione diffusa e regole interne su privacy, sicurezza e proprietà intellettuale.
Quarto: rafforzare cyber e sicurezza della supply chain digitale; e prepararsi a gestire crisi reputazionali nell’ecosistema delle piattaforme.
Quinto: lavorare sul vincolo più duro – competenze e demografia – con alleanze tra imprese, ITS/università e territori: la produttività del prossimo ciclo dipenderà più dalle persone che dai capitali.
Se il decennio 2015–2025 ci ha insegnato qualcosa, è che “resilienza” non significa chiudersi: significa scegliere dove essere dipendenti, dove essere autonomi e come tenere insieme competitività e coesione. Il tempo utile per impostare queste scelte non è il 2030: è adesso, nei prossimi bilanci.
Andrea Viliotti





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